Valerio Costa

 

Analisi Videointervista a cura di Benedetta Gelosini 

  La droga è paralisi, la riabilitazione è movimento, la vita è movimento

Queste sono le parole di Valerio Costa, grande pioniere della lotta alla tossicodipendenza e  fondatore nel 1974 della prima comunità terapeutica di recupero in Trentino, Camparta.  E’ bene tenere presente che gli anni ’70 erano anni pieni di contrasti di pensiero anche all’interno  della Chiesa Cattolica. Sono gli anni dell’attuazione del Concilio Vaticano Secondo: in quelle sedi i  Vescovi Cattolici discutevano degli argomenti riguardanti la vita della Chiesa e la sua apertura alle  istanze nel mondo moderno e contemporaneo. Valerio Costa nelle sue interviste parla proprio di  questo filo conduttore: il cambiamento.  

Quando si parla di temi così complessi e talvolta così drammatici come la tossicodipendenza è  necessario aprire la mente e avere il coraggio di ascoltare:  

Ricordo che in quegli anni aiutavo un ragazzo che faceva uso di Anfetamine, sostanze che in  Italia erano di libera circolazione mentre all’estero erano già anni che erano regolamentate, e mi  diceva: Distruggo me stesso per distruggere la società”.

 

Ci troviamo agli inizi degli anni Settanta nella crisi post ’68: i giovani si trovavano in uno stato di  esaltazione e contemporaneamente di deprivazione: essere giovane è bello. È esaltante, essere  giovane significa essere forte e potente ma poi di fatto significa anche trovarsi di fronte a profondi  limiti.  

I giovani avevano due possibilità: una violenta, politica, le Brigate Rosse, l’Avanguardia Operaia;  l’altra, violenta, privata che portava i giovani e giovanissimi a piantare siringhe dolorose nelle  proprie vene. Da una parte la violenza contro la società, dall’altra parte la violenza contro sé  stessi.  

Molti giovani si scontravano con il loro vuoto personale. Ciò che è utile sottolineare è che non si  trattava a quel tempo di situazioni specificamente psichiatriche. Erano persone che avevano degli  aspetti disfunzionali rispetto al proprio comportamento, rispetto al vuoto che si era creato intorno  

a loro, e quindi era per certi versi anche più facile la possibilità di riabilitazione.  Tuttavia più il tempo passava più le difficoltà di riabilitazione, piuttosto che diminuire,  aumentavano: un uso precoce di sostanze, addirittura in età adolescenziale, blocca quel percorso  evolutivo ed emotivo che una persona deve vivere per diventare adulto.  L’adolescenza è il tempo della conquista della propria identità. Le droghe bloccano questo  cambiamento, lo anestetizzano, eliminano la voglia di conquista; ognuno cerca di assumere una  identità pur che sia, ed è la società a questo punto che offre loro quell’identità: l’identità del  tossicomane.  

Valerio Costa a questo proposito ci dice, amareggiato: “Questa è pure un’identità, piuttosto che il  niente: il niente a volte è più angosciante del qualche cosa”.

 

E’ bene tenere presente però che ognuno è il frutto di una storia singolare e diversa dalle altre; in  alcuni casi la tossicodipendenza è stata un fortissimo richiamo ad una famiglia spesso assente; il  tossicomane si è semplicemente trovato probabilmente frantumato all’interno della costellazione  familiare.  

E’ così che possiamo dire che la società crea il diverso e poi in qualche modo tende a rifiutarlo.  Alla luce di questa consapevolezza Valerio Costa ha cercato di spiegarci cosa si decide di fare  quando, da esterni, ci si trova ad affrontare problemi di questo genere: 

Si crea un contesto in cui porre i tossicodipendenti, gli diamo il metadone che è in realtà una  grande bugia. La soluzione al problema non è mai il metadone. La risposta del metadone è  semplicemente una sostituzione alla modalità che il tossicodipendente è andato a cercare per  risolvere la propria difficoltà di vivere”.

 

La tossicodipendenza è proprio questo, è difficoltà di vivere, difficoltà di esistere nel vero senso  etimologico del termine: “ex-sistere”, dal latino “stare in piedi”.  

Il tossicodipendente è uno che non sa stare in piedi da solo nel mondo: la sostanza diventa  come un bastone, un coinvolgimento che è in grado di dare risposte ad ogni domanda.  

Valerio Costa a questo punto ci racconta come in prima persona ha deciso di contribuire, per  quanto gli era possibile, a ovviare questo problema:  

Ho incominciato a vedere delle persone che usavano queste sostanze anche a scuola, era tutto  nella clandestinità ovviamente. Allora c’era anche gente che incominciava ad avere qualche  problema, qualche bisogno di sostegno esterno. Fu lì che feci un tentativo di mettere insieme un  gruppetto di medici. Un tentativo che fallì immediatamente perché la legge vigente, che era la  1041 del 1954, una legge fortemente repressiva, prevedeva che chiunque usasse queste  sostanze, doveva essere denunciato dal medico e alla denuncia corrispondeva l’arresto. E la pena  prevista era da tre a otto anni.”

 

Alla fine del 1975 Valerio Costa aveva 135 casi di soggetti tossicodipendenti a Trento. Avevano  tutti un nome e un cognome, una scolarità, una storia.  

Il nostro intervistato prosegue a parlare di quell’anno, il 1975, ma la sua voce si fa visibilmente più  tenue, più commossa:  

E proprio nel 1975, nel giugno del 1975, che è morto il primo, il ragazzo più giovane d’Italia per  oppiacei. Il passaggio all’utilizzo di oppiacei ha profondamente mutato il fenomeno della  tossicodipendenza, sia per i costi sia per come queste sostanze si presentavano all’interno di  queste persone. Queste sostanze creavano, non nell’immediato ma dopo poche settimane di uso,  una dipendenza fisica per cui non era soltanto la compulsione al desiderio della sostanza ma era  anche una necessità rispetto alla crisi di astinenza.  

Bisognava inoltre fare i conti con tutti i sintomi che la crisi di astinenza apportava: l’orripilazione, il  vomito, la diarrea. L’assunzione della sostanza era quindi un desiderio assoluto, che dopo essere  iniettata in vena, portava immediatamente e miracolosamente il benessere”.

 

A Trento, era piazza Duomo il luogo di ritrovo di questi soggetti e vi era inoltre una forte tendenza  al proselitismo: creare gruppo diventava un modo di sentirsi più forti, più orgogliosi; e Trento è  stata tra le prime città a vedere questo fenomeno in maniera così marcata e davanti agli occhi di  tutti.  

E’ in questo panorama che si sviluppa la comunità di Camparta. Questa comunità era un centro in  cui i tossicodipendenti giungevano dopo essere stati seguiti attentamente da professionisti nella  disintossicazione. Si puntava ad offrire un percorso riabilitativo che si fondava sulla coltivazione,  sul lavoro della terra legato alla dimensione cosmica della vita: ciò che cresce, ciò che muore, ciò  che marcisce, i tempi, le attese. I lavori a cui si dedicavano i ragazzi erano relativi anche alla  gestione della casa, della cucina, della lavanderia. L’obiettivo era che ognuno fosse in grado di  raggiungere la propria autonomia: 

Perché il tossicodipendente ha una caratteristica: è una persona che fa pensieri ma non pensa;  pensare a un prima, un durante, un dopo. Pensare entra nell’ottica delle progettualità. Fare  pensieri è qualche cosa che si accavalla, che viene e che passa. C’era gente per esempio che  odiava far erba negli orti e magari dopo sei mesi diceva: “Sai, ha incominciato a piacermi”.

 

Valerio Costa a questo proposito cita quanto diceva Flaubert:  

Se vuoi che una cosa ti possa interessare permettiti di osservarla a lungo”. Il tossicodipendente,  non è una persona che non ha capacità intellettiva. Ce l’ha eccome. Ciò che manca al  tossicodipendente è il gusto interiore delle cose, il percepire il piacere delle cose e allora il  tentativo era quello di portare alla mobilità il cervello come si porta alla mobilità una mano.  Mi pare fosse Primo Levi che diceva che “La mano è un organo nobile che non va disgiunta in  qualche modo dal cervello”. Attraverso questa modalità l’operatore lavorava per dare il senso del  lavoro, viveva per dare il senso del vivere. Che cosa fanno una mamma o un papà? Non dicono  mai: “adesso facciamo lezione di vivere”, semplicemente ne danno l’esempio in ogni momento  della loro stessa vita”.

 

Per questi ragazzi era così importante fare psicoterapia, in particolare nella modalità di gruppo.  Tenevano di solito le sedute con il prof. Ferlini: era un momento di socializzazione e condivisione.  E che metteva alla prova anche i terapeuti stessi: “Bisogna essere così vicini alla testa del paziente  da poterne vedere i pidocchi e così lontani da essa da non permettere che i pidocchi del paziente  vengano sulla propria testa”. Nella psicoterapia, come nella vita cercare risposte semplici è  fuorviante; non esistono risposte semplici a problemi complessi; esistono piuttosto risposte  differenziate, i passaggi sono minimali, piccolissimi, avvengono per gradi, si creano con  pazienza, con attenzione.  

I tossicodipendenti, coloro che sono caduti in un così profondo tunnel di abbandono a loro stessi,  sono prima di ogni cosa persone. Uomini e donne. Non si tratta di atleti ai quali viene chiesto di  correre i 100 metri in 9 secondi. Si tratta dell’importanza che si deve dare al movimento stesso,  bisogna insegnare loro a camminare, a vivere. 

Per informazioni, suggerimenti o richieste sul progetto contattaci all'indirizzo mail: info@memoriesociali.it