Analisi Videointervista a cura di Benedetta Gelosini (20.10.2020)
“Sono Stefano Petrolini, di professione svolgo l’attività di operatore sociale e dall’inizio del 2008 fino al 2012 mi sono occupato specificamente delle attività svolte dagli educatori presso il campo sosta sinti di Trento con i gruppi dislocati sul territorio del comune. Le attività svolte all’interno della comunità si muovevano con la specifica attenzione di promuovere l’autocoscienza dei membri della comunità dei sinti”.
Stefano Petrolini ha dedicato buona parte della sua vita all’aiuto delle minoranze etniche. Grazie anche alla sua laurea in Sociologia, ha potuto contribuire in modo attivo e professionale ai tentativi di soluzione delle problematiche che si sviluppavano, e tuttora si sviluppano, in queste comunità. In questa intervista ci spiegherà cosa ha significato per lui lavorare per queste comunità; ci mostrerà attraverso il suo tono di voce crescente e la sua gestualità sempre più accentuata quanto questo tema dovrebbe essere di estrema importanza per tutta la comunità trentina e italiana in generale.
“Il momento più critico è stato quello immediatamente precedente al 2007, quando al campo erano presenti 132 persone. […] Allo stesso tempo però possiamo dire che sia stato anche il periodo di maggiore dialogo. Con una crescita importante dal punto di vista della sensibilità anche di alcuni settori della politica locale. Settori che non hanno mai negato l’aiuto, hanno sempre lasciato libera la possibilità di osservare l’andamento dei campi. Purtroppo però il nodo del fallimento non è da osservare nell’inerzia o nella contrarietà della popolazione Sinta, che con i propri comportamenti ha messo in crisi le scelte fatte dall’amministrazione. Il nodo si deve cercare nell’amministrazione stessa, nel suo complesso, in quanto non è stata in grado di portare a casa questo obiettivo”.
Stefano Petrolini ci spiega che nel 2009 è stata promulgata una legge sulle microaree per affrontare la tutela delle comunità sinte e rom stanziate in Trentino da generazioni. Queste norme attuative riconoscevano queste micro comunità e volevano responsabilizzare i capifamiglia; pertanto si prevedeva l’assegnazione di aree di dimensioni ridotte, comprendenti un solo nucleo familiare. In questo modo si poteva facilmente individuare nelle “aree residenziali di comunità” una forma abitativa possibile che riconoscesse il nucleo familiare come una dimensione affettiva di convivenza.
La legge prevedeva anche il tema della cultura del lavoro: si prevedeva il recupero delle competenze di un popolo, regolarizzando le attività svolte nel lavoro tradizionale. Ma soprattutto si affrontava il tema della scuola: il “patto di comunità” prevedeva l’impegno alla scolarizzazione dei bambini.
“[…] è una cultura altra, non c’è niente da fare, dal punto di vista linguistico, da un punto di vista delle tradizioni, dal punto di vista della ricerca di una identità. La distinzione tra i gagi, così noi veniamo chiamati, e i sinti è sempre stata marcata e si è sempre voluta mantenere questa distanza. Una distanza che è fisiologica, naturale, non disturbante a patto che sia racchiusa in una dimensione nella quale queste differenze vengono accettate e gestite. Infatti il problema più grosso è non gestirla, è rifiutarla o addirittura opporsi ad essa”.
L’intervistato ci spiega che i tentativi di assimilazione culturale di quelle popolazioni sono stati fatti per centinaia di anni. La storia racconta ad esempio come la Francia nel ‘700 abbia tentato un’assimilazione della cultura zigana ma con risultati disastrosi. Queste popolazioni non hanno intenzione di essere assimilate. Il riconoscimento di queste popolazioni significa apprendere la capacità di valorizzare le specificità delle loro culture diverse, abbandonando il concetto radicato che siano pericolose. Il diverso non è pericolo. Le altre culture sono composte “esattamente come qualsiasi altro consesso umano, di persone capaci di stare alle regole, e di persone che alle regole non ci vogliono stare”.
Uno dei temi affrontati da Stefano Petrolini nell’intervista e nella vita è il concetto di “casa”. Quando pensiamo alla casa ognuno esplica il proprio ricordo, la propria esperienza relativa ad essa: i ricordi, gli affetti, le mura, le sensazioni e i profumi. In ognuno scaturisce una catena di emozioni unica, inimitabile e sacra proprio come sono inimitabili e sacre le vite umane, nessuna esclusa. E sarebbe divertente e interessante scoprire come “casa” non sia unicamente un luogo; “casa” è un concetto. Se provassimo a chiedere a persone differenti di crearci un brainstorming di parole che sono suscitate da questo concetto, ci accorgeremmo che sono varie, molteplici e allo stesso modo interessanti; ci accorgeremmo che “casa” per qualcuno è famiglia, è calore, per qualcun altro è una sola persona, per altri ancora è un animale; e allora dovremmo imparare ad accettare chi in questo brainstorming di emozioni pensa ad una roulotte, ad un camper, o a luoghi non definibili, perché “casa” per qualcuno non ha lo stesso significato di stabilità che molti possiedono.
“Penso al rapporto sinti-casa che è un problema sempre grande perché comunque la cultura sinta è una cultura che considera la vita quotidiana all’aperto, in roulotte, in camper. Se piove è chiaro che anche loro si riparano al chiuso, al caldo, usufruendo anche di una stufa; sono anche molto abili nel gestire questi aspetti pratici. Per una famiglia sinta sono stati frequenti i casi di depressione legati allo stare in una casa e da qui risulta comprensibile la scelta di ritornare a una vita all’aperto. Altri ce la fanno, stringono i denti e ce la fanno, ma questo non è possibile chiamarlo integrazione” afferma Stefano.
Quando si parla di integrazione si pensa ad uno sviluppo progressivo di accettazione dell’altro; sono tante le realtà che sono immigrate per necessità in territori diversi dal luogo di nascita; tante realtà che, seppur con fatica, si sono amalgamate nel territorio anche esplicitando e distinguendosi per le proprie caratteristiche peculiari; Stefano, dopo un sospiro di sconforto ci racconta:
“[…] ecco per i sinti questa cosa non avviene: loro sono sempre nel sottoscala, c’è sempre qualche gruppo sociale immigrato, una minoranza culturale che si interpone tra l’ultimo e il penultimo e loro rimangono sempre ultimi. Ed è questo il problema principale: questo ci dice che si è sempre alla ricerca di un capro espiatorio per le cose che non vanno, della microcriminalità che si esplica nei furti in casa piuttosto che nei taccheggi, nei furti con destrezza nei luoghi affollati; vi è proprio un’incapacità di saper cogliere nelle differenze un valore importante che implicherebbe a ben vedere anche un arricchimento generale”.
L’attività principale di un gruppo di sinti è la raccolta del ferro. Stefano Petrolini ci spiega che questo fattore è legato ad un carattere storico: il lavoro del ferro è sempre stato legato anche al fuoco, ad una dimensione magica. Il ferro è un materiale che storicamente questi gruppi conoscono molto bene. L’ordinamento nuovo vigente in Italia prevede che il ferro non sia considerato una risorsa da recuperare ma un rifiuto. Il rifiuto implica verbali e norme molto restrittive sulla sua gestione; ciò ha in qualche modo limitato la capacità di produzione di reddito da parte delle famiglie. L’intervistato ci spiega come il ferro fino a qualche anno fa veniva venduto a prezzo di mercato dalle aziende ai gruppi sinti; ad oggi questo non è più possibile in quanto è vietato per gli stessi centri di raccolta accettare metalli che arrivano da fonti non certificate. Per questi motivi Stefano ci racconta come Kaleidoscopio, in quanto associazione, ha tentato di gestire il tema del lavoro di queste popolazioni:
“[…] noi ci abbiamo provato, abbiamo provato a costituire una raccolta di ferro che potesse godere di qualche finanziamento proprio per superare alcuni dei vincoli economici, strutturali e tecnici imposti dalla nuova normativa ma è una battaglia che se scollegata dalla volontà politica sottostante non porta da nessuna parte. È troppo onerosa, semplicemente per aprire una cooperativa di raccolta è necessario iscriversi all’albo degli artigiani e avere pronti 20.000 euro sull’unghia. Serve una quantità di soldi che non sono disponibili, non c’è nemmeno da mettersi a discutere, e soprattutto se non è presente una volontà specifica loro, risulta ancora più complicato”.
Verso la conclusione della sua intervista Stefano Petrolini raggiunge il fulcro del suo messaggio; il suo è un concetto reale e oggettivo che descrive una visione preoccupata nei riguardi di un problema così poco considerato:
“Dobbiamo considerare questa popolazione non solo come soggetto debole ma come soggetto oppresso, che è una cosa un po’ diversa; il debole io lo aiuto, all’oppresso invece riconosco la sua specificità, la sua autonomia; in questo modo mi pongo anche educativamente in una posizione diversa. Se entrassimo nella consapevolezza dell’aiuto verso queste minoranze, dovremmo porci come compagni, al loro fianco, chiedendo loro di condurci verso le loro usanze e costumi. Dovremmo camminare insieme fintanto che non si condividono più gli stessi principi e solo allora farlo loro presente. Dovremmo lavorare sulla parola, sulle espressioni, sulla raccolta di parole. Bisognerebbe essere in grado di passare dalla dimensione del controllo alla dimensione della corresponsabilità, con un riconoscimento delle differenze di ruolo”.