Un grande attivista di comunità di Bruno Bortoli – Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Saul David Alinsky (Chicago, 1909 – Carmel, California, 1972)
Quando una comunità, qualsiasi tipo di comunità, è depressa e sfiduciata, ha bisogno di qualcuno che venga dall’esterno e cominci a smuovere le cose. Questo è il mio compito. (S. Alinsky, cit. in Norden, 1972)
La figura carismatica di Saul Alinsky ha recentemente incuriosito la grande stampa perché due dei potenziali competitori per le prossime presidenziali degli Stati Uniti si rifanno, almeno indirettamente, al suo insegnamento: Hillary Clinton si è laureata nel 1969 con una tesi su Alinsky, mentre Barack Obama si è fatto politicamente le ossa, dopo la laurea, in un’organizzazione alinskysta per il riscatto dei ghetti di colore. E così, a oltre quarant’anni dalla sua morte, si ravviva l’immagine controversa di questo animatore sociale che non si è ancora capaci di giudicare con distacco: o lo si ama o lo si detesta incondizionatamente.
Ma chi era Saul Alinsky? Se vogliamo trovare un tratto distintivo della sua biografia, possiamo forse individuarlo nel paradosso.
Alinsky è quello studente che frequenta la scuola rabbinica di Chicago, dalla quale fugge dopo aver saputo che volevano fare di lui — appunto — un rabbino.
Sceglie gli studi di archeologia e, immediatamente dopo, quelli di criminologia: apprende la disciplina soprattutto sul campo, andando a far parte (solo come osservatore, beninteso) della banda di Al Capone, per poi lavorare come psicologo nel carcere statale dell’Illinois. Sostiene il sindacato radicale di John L. Lewis; raccoglie fondi per le Brigate popolari in Spagna e sostiene l’Unione Sovietica, fino al patto russo-tedesco del 1936, ma è disponibile a entrare nei servizi segreti americanidurante la seconda guerra mondiale. È la bestia nera delle municipalità americane, pronte a incarcerarlo per evitare la sua azione sovvertitrice, eppure il filosofo cattolico Jacques Maritain lo definisce «uno dei miei grandi amici»: con lui intrattiene un intenso scambio epistolare, che spazia su tutti i temi esistenziali e si conclude solo con la morte dell’ organizer statunitense.
Ma è sempre Alinsky che abbandona una comoda posizione accademica all’università di Chicago per spendersi in prima persona nell’animazione delle comunità urbane della città. È accusato di essere rivoluzionario e marxista, eppure viene invitato a Milano dall’arcivescovo Montini, futuro papa Paolo VI, per tenere un seminario sulle tecniche organizzative più idonee ad affrontare i bisogni dei lavoratori.
È, ancora, quell’Alinsky che, inviso all’associazione dei social workers di Chicago perché lui e i suoi collaboratori agivano come «operatori sociali» senza essere in possesso dei titoli accademici formali, oggi, fa incontestabilmente parte della galleria dei grandi del lavoro sociale americano e mondiale.
Dunque, non bisogna stupirsi troppo che una delle fonti principali per la conoscenza di Saul Alinsky in tutta la sua umanità, una sorta di autobiografia, sia una lunga intervista rilasciata a Eric Norden di «Playboy Magazine», pochi mesi prima di morire: un’intervista dove mostra tutta la sua guasconeria e la sua irriverenza verso ogni forma di potere costituito, ma anche la sua scelta di campo a favore di chi non ha potere.
Se c’è un aldilà, sicuramente andrò all’inferno, ma subito dopo il mio arrivo comincerò a organizzare gli Have-nots [i poveri, i non abbienti] che troverò. Loro sono i miei fratelli. (Alinsky, cit. in Norden, 1972)
Le prime esperienze
Saul David Alinsky era nato nel 1909 a Chicago. I suoi genitori, di religione ebraica («tutto lavoro e sinagoga»), erano emigrati dalla Russia all’inizio del secolo e assieme ad altri correligionari vivevano in un ghetto, all’interno di quel ghetto costituito dall’intero quartiere. Un ghetto dai confini invisibili ma ben tracciati, i cui sconfinamenti davano luogo a lotte accanite con altre minoranze accesamente antisemite, come i polacchi: per sedarle, giungevano i poliziotti irlandesi a cavallo che, con gusto, menavano a destra e a manca arrestando i più facinorosi, esperienza questa che talvolta toccò anche al giovane Saul.
Dal 1926 al 1930, sempre a Chicago, il giovane Alinsky compì gli studi superiori, prima archeologia, poi sociologia. Non trovando un lavoro che gli consentisse di sfruttare il primo titolo, ottenne una borsa di studio per preparare una tesi sperimentale in criminologia. A tal fine, si avvicinò alla banda di Al Capone, legandosi in modo particolare al luogotenente Frank Nitti. Sfruttando la vanagloria che li spingeva a raccontare le loro bravate, raccolse il materiale per la sua ricerca. Dei due anni che passò con la banda dirà poi, non senza humour: Era un’impresa di utilità pubblica. Capone forniva alla gente ciò che questa chiedeva. E poi non è lui che ha creato la corruzione. Ne ha soltanto tratto profitto. (Alinsky, cit. in Norden, 1972)
In seguito venne assunto dall’Illinois State Division of Criminology per occuparsi dei giovani delinquenti. Di lì passerà alla prigione statale per adulti, dove lavoreràfino al 1936. Decise di cambiare impiego perché disgustato dalla brutalità, disumanità e crudeltà del sistema penitenziario: aveva maturato la consapevolezza che fosse inutile tentare programmi di recupero in un contesto economico e sociale del tutto controproducente, fatto di alloggi malsani, discriminazione razziale, disoccupazione, incertezza economica, malattia.
Il suo impegno sociale è quello tipico dei progressisti della sua epoca: raccoglie fondi per gli operai stagionali del sud degli Stati Uniti; per la Brigata internazionale in Spagna; collabora con il sindacato radicale Congress of Industrial Organizations (CIO) e con il suo leader John L. Lewis.
I metodi utilizzati nelle lotte del movimento sindacale verranno riportati nella sua successiva attività di organizzazione di comunità. La prima esperienza è del 1938, nel quartiere
Back of the Yards di Chicago. Alinsky si integra nella vita del quartiere e cerca alleanze. Il 95% degli abitanti è di fede cattolica e un primo alleato è il vescovo ausiliare della diocesi socialmente più progressista del Paese, Bernard J. Sheil: «un uomo intelligente, liberale, dalla parte dei lavoratori, che guardava con simpatia a chi desiderava lavorare a favore di quel quartiere». Nel giro di un decennio, l’azione dell’organizzazione contribuì a cambiare faccia al quartiere: si risanarono le abitazioni, vennero riequilibrati prezzi e salari, la municipalità assicurò i servizi sanitari e scolastici necessari, scomparvero gli usurai.
La fama acquisita per la sua opera di animazione sociale e l’istituzione dell’Industrial Areas Foundation (IAF) lo portarono a Los Angeles, a New York—dove collaborò con Ivan Illich —, nel Montana e in California, dove organizzò il suo progetto forse più conosciuto, quello a favore dei lavoratori agricoli di origine messicana, lavorando con il loro famoso leader Cesar Chavez.
Ogni volta si trattava di mettere al centro del tentativo organizzativo l’autodeterminazione della comunità. Era la comunità che doveva farsi avanti e chiedere il supporto organizzativo di Alinsky; era sempre la comunità a dover individuare i propri obiettivi e i propri leader. L’organizzatore vi metteva il know-how tecnico, non imponeva i suoi punti di vista o le sue idee, non era lì «per guidare, ma per aiutare e insegnare». Secondo il suo approccio, le comunità che volevano organizzare un progetto di riqualificazione
dovevano temporaneamente avvalersi dell’esperienza sua e dei suoi collaboratori, per poi continuare l’azione da soli. Per questo Alinski proponeva un contratto con un termine prestabilito: tre anni al massimo, «altrimenti si sarebbe creata una dipendenza».
Tattiche creative
La celebrità ottenuta con queste realizzazioni lo spinse a organizzare altre comunità e a impegnarsi, soprattutto negli anni Sessanta, a fianco della gente di colore che combatteva la discriminazione razziale nelle scuole, nei quartieri, sul lavoro.
Nell’aiutare l’auto-organizzazione della comunità, i temi a lui cari erano il realismo, la concretezza, il riferimento costante all’«interesse» come unica molla capace di motivare chiunque, lo scegliere la tattica più imprevedibile, purché non violenta, la convinzione che mettere in ridicolo l’avversario fosse la peggiore umiliazione e pertanto lo strumento più efficace. Alle volte, bastava solo far girare ad arte la notizia dell’azione che si intendeva realizzare per ottenere il risultato voluto: il più delle volte, il fine era di potersi sedere al tavolo della contrattazione. Eastman Kodak era l’industriale padre-padrone dell’intera città di Rochester.
Alinsky gli si contrappose per contrastare la discriminazione contro la minoranza di colore, con un’azione che ebbe risonanza nazionale. Si sparse la notizia che un centinaio di rappresentanti della minoranza, dopo un abbondante cena a base di fagioli, avrebbe presenziato munito di regolare biglietto al concerto che rappresentava la più importante manifestazione dell’anno per la buona società cittadina. Questo bastò per ottenere l’avvio dei negoziati, dopo mesi e mesi che i sindacati e i rappresentanti delle chiese continuavano a chiederli. Con un’iniziativa analoga, nel 1964 riuscì a convincere Daley, il potente sindaco democratico di Chicago, a venire a patti con gli abitanti dei ghetti, annunciando che i cittadini in lotta si preparavano, in maniera assolutamente legale, a occupare a tempo indeterminato tutte le toilette dell’aeroporto cittadino.
È comprensibile che Alinsky avesse molti avversari. Spesso appena arrivato in città trovava ad attenderlo la polizia locale («risparmiavo sugli alberghi: non appena arrivavo mi mettevano in prigione»). Nel 1946, a Kansas City, la permanenza nelle prigioni cittadine fu particolarmente apprezzata, perché gli permise di terminare il libro Reveille for Radicals, pubblicato nello stesso anno.
Il 1968 rappresenta un momento di svolta nella sua vita. La sua attenzione si sposta dai ghetti delle minoranze etniche verso le frustrate classi medie bianche.
Pensa che solo costruendo un’alleanza con le classi medie sarà possibile mettere in discussione la distribuzione del potere nella società e, soprattutto, sollevare quelli che sono nei gradini più in basso. Gli ultimi capitoli di Rulesfor Radicals (il suo secondo e ultimo libro, del 1972) ne sono un’ampia testimonianza. È anche l’anno in cui istituisce l’Industrial Areas Foundation Institute, la sua «università privata»: una scuola per radicali, finanziata dalla chiesa cattolica e da grandi capitalisti, che formerà sacerdoti ed esponenti delle minoranze alle tattiche più efficaci per organizzare le popolazioni marginali a tutelare i propri diritti.
Il ribelle e il filosofo: l’amicizia con Maritain
Qualche anno fa, a oltre un ventennio dalla loro morte, è stato pubblicato l’epistolario tra Saul Alinsky e Jacques Maritain. Era stato il comune impegno per la giustizia sociale a farli incontrare ed era poi nata anche una forte amicizia, nella quale Alinsky ammirava la profonda cultura del filosofo, mentre questi apprezzava la rissosa insolenza di Saul e lo definiva: […] un indomito e temuto organizzatore di «comunità popolari», un leader antirazzista i cui metodi sono tanto efficaci quanto poco ortodossi. (Maritain, 1975,p. 42)
Lo studioso e l’attivista partecipavano un comune credo personalista nel valore fondamentale e nella dignità di ogni essere umano, in particolare di chi era confinato al margine della società dalle logiche del capitalismo.
Un secondo motivo di comunanza era legato alle tragedie familiari: Helene, l’amata prima moglie di Alinsky, era annegata nel 1945 per salvare la figlia e una sua amica; Raissa, la sposa di Maritain, era stata colpita da una grave invalidità. Il cristiano e l’umanista si confrontano così con il tema della perdita: Alinsky scrive che, una volta accettata l’idea della propria morte, si è improvvisamente liberi di vivere, come emancipati dalle pastoie dei valori e delle paure del mondo, mentre Maritain, parlando dell’invalidità di Helene, risponde che, da allora in avanti, lei gli sarebbe stata guida e insegnante, perché vedeva Dio.
Un altro tema dei loro scambi è legato alla riflessione sulla questione dei mezzi e dei fini. Alinsky è abbastanza deciso nel suo relativismo: sono le situazioni che giustificano i mezzi. Maritain, per contro, ritiene indispensabile una gerarchia valoriale: non c’è nulla che possa giustificare la tortura o i bombardamenti indiscriminati.
Saul Alinsky muore un anno prima del filosofo. Il 30 giugno 1972 un attacco di cuore lo colpisce improvvisamente, mentre si trova per strada, in una cittadina della California.
Il metodo dell’organizzazione popolare
Il metodo di Alinsky ruota attorno a cinque elementi fondamentali, che vanno contestualizzati non tanto in un progetto promozionale di largo respiro e di lungo periodo, ma in azioni di confronto o anche di scontro acceso tra minoranze sociali e potere economico-politico volte al riconoscimento di diritti e di potere decisionale, al cui sbocco, qualunque sia l’esito, vi sarà un maggiore empowerment comunitario.
L’organizzatore professionista è il catalizzatore del cambiamento sociale. Alinsky punta su una forte leadership e su processi decisionali strutturati. I gruppi devono affrontare
pressioni e crisi che richiedono delle decisioni rapide e obiettive: l’organizzatore è la persona in grado di assicurare un processo decisionale efficace/efficiente. Ciò non deve indurre in errore: la metodologia di Alinsky non è centrata sull’autocrazia, il suo metodo insiste sul fatto che il processo di problem solving, la partecipazione attiva della gente comune sono importanti quanto le soluzioni o le decisioni stesse. La centralità e la forza della leadership sono al servizio della democrazia.
Il compito dell’organizzatore è quello di costruire un organizzazione basata sulla comunità.
La democrazia viene definita come il processo di autodeterminazione nel quale la gente comune assume decisioni sui problemi che la concernono direttamente. Per Alinsky, le vere organizzazioni democratiche possono svilupparsi solo in unità spaziali limitate — come un quartiere — in cui esistano dei legami naturali di unità e identificazione. A differenza della maggior parte degli approcci «ideologizzati», Alinsky sostiene l’importanza di poter contare sul supporto dei leader e delle istituzioni comunitarie, se hanno seguito e influenza sulla comunità. L’organizzatore, infatti, non è il leader, ma il catalizzatore, che lavora dietro le quinte occupandosi soprattutto di preparare i «leader locali».
L’obiettivo è la conquista del «potere». La democrazia può essere realizzata solo organizzando le persone a combattere per avere più potere. Le organizzazioni di quartiere
sono viste come «i sindacati dei senza potere». Come i lavoratori delle fabbriche si associano per essere rappresentati sul mercato del lavoro, così le organizzazioni comunitarie rappresentano i lavoratori e le loro famiglie fuori dalle fabbriche, nella fabbrica-società (trade-union in the social factory). Il tratto comune delle due rappresentanze è l’azione di tutela dei propri interessi. D’altra parte, dice Alinsky, fino a quando le persone agiranno in base al proprio tornaconto piuttosto che in base all’altruismo, sarà il primo a motivare un’organizzazione popolare, piuttosto che l’esaltazione dei valori di solidarietà.
Usare ogni tattica che si riveli efficace. Le tattiche tradizionali, conservatrici, utilizzate dalla maggior parte dei gruppi di pressione, sono costose e inadatte per organizzazioni
di poveri che, prive di risorse finanziarie e di influenza politica, possono raggiungere i loro obiettivi soltanto mediante l’utilizzo di strategie non violente creative e militanti. Dalle negoziazioni agli arbitrati, dalle proteste di piazza alle manifestazioni, dai picchettaggi al boicottaggio, l’utilizzo di ogni strumento che possa rivelarsi utile in quel momento rappresenta l’elemento chiave dell’alinskysmo. Nei suoi scritti si sofferma a lungo nell’argomentare che il fine giustifica i mezzi. Il riferimento a Machiavelli è esplicito, ma con una grande differenza: il filosofo italiano stava dalla parte del principe, Alinsky da quella del popolo.
Tattica significa fare quello che potete con i mezzi che avete a disposizione […]; la tattica è l’arte di come prendere e di come dare […]; se avete una organizzazione numerosa, disponetela ben in vista davanti all’avversario, mostrando apertamente il vostro potere; se la vostra organizzazione è limitata, fate come Gedeone: sistematela al buio ma fatele fare così tanto rumore da far credere all’ascoltatore di trovarsi davanti a più gente di quanta effettivamente ci sia; se la vostra organizzazione è troppo piccola anche per fare rumore, allora ammorbate l’aria… (Alinsky, 1972, p. 126)
Un organizzazione popolare deve essere pragmatica e non ideologica. Alinsky era consapevole che tutti i movimenti rivoluzionari nascono da valori spirituali e dalla fede nella
giustizia, nell’uguaglianza, nella pace e nella fratellanza. Tuttavia, era ferocemente contrario alle organizzazioni ideologizzate. Le considerava antidemocratiche, perché partivano non solo da ideali, ma anche da obiettivi e strategie preconcette. Lasciate che la gente decida — affermava Alinsky—, non importa cosa decide, l’essenza della democrazia è il poter decidere. Imporre un’ideologia progressista è controproducente e non necessario. Solo quell’ideologia progressista che le persone sapranno sviluppare autonomamente avrà davvero significato. D’altra parte, riteneva che l’uso di procedure democratiche non poteva che produrre ideali e obiettivi democratici e quindi bisognava avere fiducia nella democrazia e nelle persone.
Le doti del community worker
In Rules for Radicals Alinsky dedica un intero capitolo alla formazione dell’organizzatore, elencandone i requisiti e le abilità. Non si fatica a vedervi riflessa l’esperienza
personale maturata nelle varie situazioni organizzative: lui stesso ne è consapevole,tuttavia passa in rassegna i vari prerequisiti/abilità dell’organizzatore, quasi a voler togliere di mezzo certi luoghi comuni che ritengono un operatore sociale solo un «buonista» dotato di altruismo.
Al primo posto viene messa la curiosità: per l’organizzatore la vita è ricerca di un piano d’assieme, ricerca delle somiglianze in mezzo alle discordanze apparenti; ricerca di un ordine nel disordine; ricerca di senso attorno a sé; ricerca incessante di un modo di situarsi in rapporto a se stesso. Avanza ponendosi continuamente domande, consapevole che non vi sono risposte definitive, ma solo altre domande ancora, un po’ come Socrate.
Al secondo posto vi è l’irriverenza, che va di pari passo con la curiosità. L’uomo curioso si chiede ben presto: «È vero tutto ciò?». Per chi si pone delle domande, non c’è nulla di sacro: odia il dogma e rifiuta ogni definizione categorica della morale; si ribella contro ogni repressione che impedisca una libera, aperta ricerca di nuove idee.
Provoca, agita, disturba, dissacra, movimenta… Come tutto ciò che è vivo, tuttavia, anche questo è un paradosso, perché l’irriverenza si nutre di un profondo rispetto per il mistero della vita e per l’infaticabile ricerca del suo significato.
L’immaginazione è inseparabile dalle prime due doti. Come si può essere curiosi senza essere immaginativi? Per l’organizzatore è l’immaginazione, più che l’indignarsi di fronte all’ingiustizia, l’elemento dinamico che spinge e sostiene l’azione. L’immaginazione è anche la base dell’efficacia nell’azione e nella tattica: per valutare e anticipare in maniera realistica le probabili reazioni dell’avversario, bisogna sapersi mettere nei suoi panni e immaginare ciò che egli farebbe se fosse al nostro posto.
L’organizzatore che cerca con uno spirito veramente aperto, che non conosce la certezza, che odia il dogma trova nel senso dell’umorismo non soltanto un modo di mantenere lo spirito sano, ma anche una chiave che gli permette di comprendere la vita. Il senso dell’umorismo permette di mantenere una giusta prospettiva delle cose e vedere se stessi per quello che si è: un pizzico di polvere che brucia nello spazio di un secondo. Per un tattico, poi, l’umorismo è un elemento essenziale del successo, poiché le armi più potenti del mondo sono la satira e il senso del ridicolo.
Il lavoro dell’organizzatore consiste essenzialmente in piccoli compiti ripetitivi e noiosi. Ciò che gli permette di continuare è l’aspirazione verso un mondo migliore, il riuscire a intravedere il grande mosaico che sta creando assieme agli altri, un mosaico nel quale ogni pezzetto è essenziale.
L’organizzatore deve avere una personalità ben organizzata, per sentirsi a suo agio in situazioni disorganizzate ed essere razionale in mezzo alla irrazionalità. Abile e calcolatore, deve potersi servire dell’irrazionale per tentare di avanzare razionalmente.
L’ego di un organizzatore è un ego molto forte e solido. È certo di riuscire in ciò che ritiene di dover fare. Un organizzatore deve accettare senza paure né ansie che le opportunità non siano dalla sua parte. È un uomo d’azione, e l’idea di arrendersi non ha in lui molta presa.
Essendosi forgiato una personalità forte, l’organizzatore non ha bisogno della sicurezza che danno le ideologie o le soluzioni miracolistiche. Solo di una cosa è sicuro: la vita è incertezza. Con l’incertezza bisogna convivere. Tutti i valori sono relativi, in un mondo in cui tutto è relativo, compresa la politica. Attrezzato di queste qualità, ha poche possibilità di diventare cinico o disilluso, perché non ha illusioni.
Infine, l’organizzatore è costantemente creativo. Crea del nuovo a partire dal vecchio e sa che le nuove idee non possono nascere che dal conflitto. Senza conflitto cessa la tensione verso il nuovo, il potere si stabilizza. È la differenza essenziale tra il leader e l’organizzatore: il leader aspira al potere per soddisfare i suoi desideri personali, vuole il potere per se stesso; l’organizzatore cerca di creare potere per permettere agli altri di servirsene.
Bibliografia
Alinsky S. (1946), Reveille for Radicals, New York, Random House.
Alinsky S. (1972), Rules for Radicals: a practical primer for realistic radicals, New York, Random House.
Bortoli B. (1989), Agitatore a fin di bene. Saul Alinsky (1909-1972), «Il Margine», n. 3, pp. 16-25.
Doering B. (a cura di) (1994), The Philosopher and the Provocateur. The Correspondence of Jacques Maritain and Saul Alinsky, Paris, University of Notre Dame Press.
Horwitt S.D. (1989), Let Them Call Me Rebel: Saul Alinsky. His Life and Legacy, New York, Knopf.
Maritain J. (1966), Le paysan de la Garonne. Un vieuxlaic s’interroge à propos du temps present, Paris, DDB, 1966, trad. it. Il contadino della Garonna, Brescia, Morcelliana, 1975.
Norden E. (1972), Playboy interview: Saul Alinsky-candid conversation, «Playboy Magazine», vol. 19, n. 3, pp. 59-79, disponibile sul sito internet: http://www.progress.org/2003/alinsky2.htm.
Sinclair U. (1906), The Jungle, New York, Doubleday, Page & Co., trad. it. La giungla, Milano, Mondadori, 1983.
Note:
1 Vedi ad esempio Ennio Caretto, Alinsky, profeta della Chicago «neolib», il primo amore di Hillary e Obama, «Corriere della Sera», 27.3.2007, p.19.
2 Era il più miserabile quartiere della città, già luogo dell’azione di Jane Addams: uno slum nello slum, collocato dietro i grandi mattatoi e reso famoso da Upton Sinclair nel suo romanzo La giungla (1906). Qui Alinsky reclutò e guidò i leader locali serbi, croati, cechi, slovacchi, polacchi e lituani, facendo in modo che identificassero i loro interessi comuni e agissero insieme per la propria tutela, superando l’odio reciproco che li aveva contraddistinti fino a quel momento.
3 Finanziata in parti uguali dalla Diocesi di Chicago, dal Sindacato dei lavoratori e da imprenditori illuminati, era il datore di lavoro di Alinsky, che gli garantiva il necessario per vivere.
Fonte: Edizioni Erickson – Trento, Bruno Bortoli – Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Lavoro sociale Vol. 7, n. 1, aprile 2007 (pp. 123-130)