Analisi Videointervista a cura di Benedetta Gelosini (11.09.2020)
“Mi chiamo Santo Boglioni, sono conosciuto come Santino. […] La mia storia è la storia del gruppo ’78, che è oggi una cooperativa sociale nata nel 1981 da un gruppo fondatore proveniente dalla comunità di Capodarco di Fermo. Una comunità nazionale che aveva l’obiettivo della deistituzionalizzazione, quindi della chiusura degli istituti per disabili con l’idea di creare come alternativa una vita di comunità, di convivenza, fondata su valori molto forti tra persone normodotate e persone con disabilità”.
Questa è la storia di un uomo che decide di abbandonare la sua famiglia di origine per vivere all’interno di una comunità dedicata ai disabili. Un uomo che racconta i suoi sacrifici, la sua dedizione, i suoi sogni, con la luce negli occhi; la tipica luce di chi ha dedicato la vita ai più deboli, di chi racconta le sue azioni come se fossero una piccola goccia in un mare di acqua; tuttavia, citando Madre Teresa di Calcutta, è bene ricordare che “Quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno”.
Quando è stata avviata la società per i disabili in Trentino non era previsto nessun finanziamento pubblico tantomeno una legge di riferimento che potesse sostenere gruppi nati dal volontariato; fin quando “nel 1983 è nata in Trentino la legge 35, con la volontà di sostenere anche le realtà che erano di volontariato. Gruppo ’78 ha sempre avuto la prerogativa di occuparsi della disabilità, questo è sempre stato il concetto alla base di ogni iniziativa, tuttavia si è sempre occupata anche dei bisogni legati al territorio, ai bisogni emergenti” spiega Santino.
Man mano che il tempo passava l’associazione riusciva ad ampliarsi e questo corrispondeva a conoscere sempre meglio il territorio: “conoscere il territorio, conoscere i suoi bisogni, conoscere la cultura e fare in modo che la risposta fosse il più adeguata possibile rispetto alle persone che provenivano dal Trentino stesso”. Restare al passo con i tempi tuttavia non significa abbandonare i principi salienti e fondanti dell’associazione stessa:
“Dico sempre non dobbiamo mai perdere di vista i valori di riferimento anche se sono subentrati anche altri valori nel frattempo . La condivisione è stata il filo conduttore di tutte le scelte che sono state fatte in cooperativa, ma così come la dignità dei lavoratori , come lo stipendio adeguato, così come un sostegno agli stessi operatori. Io dicevo sempre: è vero che il nostro obiettivo sono le persone accolte ma se non abbiamo attenzione a chi collabora con noi, a chi lavora con noi, dall’ultimo volontario all’ultimo assunto, non si creerà mai quella mutualità e quella adesione e quella fidelizzazione a tutti i componenti della cooperativa. Per cui l’attenzione nostra è sempre stata questa: cioè riuscire a coniugare risposte ai bisogni emergenti, adeguamento dei nostri strumenti di intervento, formazione del personale, attenzione al personale”.
Santino a questo punto dell’intervista crea uno spunto di riflessione molto importante e saliente per le associazioni di volontariato, ma non solo: il sostegno del personale. Il personale va sostenuto: i tre concetti principali a cui fa riferimento il nostro intervistato sono proprio: Garanzia, Formazione & Sostegno.
“Rispetto a questo, ad esempio, dopo tutte le novità che sono arrivate nel mondo della cooperazione e non solo, ma anche nel mondo imprenditoriale: il discorso della qualità dei servizi, il discorso del bilancio sociale, legato a tutta una serie di rendicontazioni, che davano il senso di quello che si faceva. Non è solamente l’attività economica che tiene in piedi una cooperativa sociale ma appunto una rendicontazione rispetto agli obiettivi riguardanti gli utenti, la comunità , il territorio. Sono subentrati tutti questi elementi di analisi e identitari della realtà della cooperazione sociale. Questo ha permesso appunto di aiutare il personale in modo adeguato, a mio parere. Abbiamo fatto anche dei test rispetto all’appartenenza: quanto i lavoratori si trovavano bene o meno all’interno della cooperativa e devo dire con sincerità che abbiamo trovato un ottimo risultato”.
Parafrasando il messaggio del nostro intervistato è importante tenere a mente che fare volontariato significa prendersi un impegno, una responsabilità; decidere se nella propria quotidianità si possono ritagliare alcune ore da dedicare agli altri. Fare volontariato significa saper ascoltare i propri istinti di altruismo, di gentilezza, di amore coniugandoli successivamente nelle realtà delle associazioni con cui si collabora. Si tratta di un percorso difficile ma non meno gratificante e soddisfacente di un lavoro vero e proprio. Ed è necessario, se non fondamentale, che le associazioni stesse abbiano a cuore non solo il prodotto del loro servizio ma anche il benessere e la soddisfazione di chi vi si dedica. Tanto si parla di volontariato ma pochi sanno quali sono gli effettivi aspetti valoriali che sottostanno alle azioni di una associazione; azioni che però necessariamente si devono intrecciare con aspetti professionali, aspetti che, chi non li possiede, deve acquisire. A questo proposito Santo Boglioni ci spiega con estrema franchezza:
“Chi come me è partito dal volontariato non era certo in grado di svolgere un ruolo professionale adeguato per certe problematiche, perché lavorare con la disabilità fisica e psicofisica, tutto sommato la relazione è abbastanza paritetica e quindi si poteva veramente svolgere un ruolo anche non avendo grandi professionalità. Arrivando alla salute mentale no. Questo voleva dire capacità di lettura mentale dei bisogni, capacità di lettura degli aspetti critici, capacità di interpretare attraverso la relazione i reali bisogni della persona, cosa molto spesso difficile, ma che, grazie alla professionalità di chi ha avuto una scuola di formazione dedicata, siamo migliorati tantissimo anche nel comprendere il nostro ruolo. E ben venga la professionalità, però se poi non è intrisa con i valori originali c’è il rischio che sia un lavoro come un altro. Dico semplicemente che questo dovrebbe essere il principio base. […] Se non si è attenti al cambiamento, rischiamo di sedimentarci su posizioni non più idonee a rispondere ai nuovi bisogni”.
Verso la conclusione dell’intervista Santino ci racconta di un evento personale, un evento bellissimo, che lo rende visibilmente orgoglioso, non solo delle sue azioni ma anche di ciò che, insieme a sua moglie, è riuscito a costruire: la loro meravigliosa famiglia.
“Io e Miriam, mia moglie, convivevamo con questi ragazzi 24 ore su 24, ciò ha creato in noi l’idea di adozione di un ragazzo o una ragazza con disabilità, questo desiderio era parte del nostro patrimonio, questo era l’orientamento che avevamo . Ci siamo sposati e un anno dopo è arrivata una richiesta, prima ancora di avere figli nostri. E’ arrivata la richiesta di adozione di un bambino, figlio di rom, calabrese, trovato casualmente dalla comunità di Lamezia Terme; ci hanno detto che c’era questo bambino che aveva problemi di epilessia, di emiparesi destra, insomma non comunicava. Era stato abbandonato come un cane per dirla in altri termini; avevano già tentato un’adozione precedente che non era andata a buon fine; noi abbiamo accettato questa scommessa, anche perché ci sentivamo forti del fatto che avevamo anche una comunità alle spalle. Senza l’apporto degli altri comunitari, del servizio civilisti, degli obiettori di coscienza, dei volontari, credo che un bambino come lui fosse difficile da gestire per una coppia normale, giovane, appena sposata, senza esperienza genitoriale; abbiamo accettato questa scommessa . Massimo è ancora con noi ha più di 40 anni nel frattempo abbiamo avuto altri due figli uno sposato, un nipote; mia figlia lavora come coordinatrice per i minori in un gruppo residenziale quindi abbiamo dato un po’ di continuità anche alla nostra storia. L’adozione è stata un passaggio forte a livello genitoriale perché non ci si inventa papà e mamma. La mamma deve fare un percorso per sentire la maternità e in quel momento più che un ruolo affettivo, era importante un ruolo educativo . Dovevamo mettere insieme l’aspetto affettivo con l’aspetto educativo, abbiamo dovuto farci supportare da psicologi e altre figure professionali.
Questa è la nostra storia ma è anche la storia di Capodarco: tante famiglie di Capodarco hanno adottato figli così, faceva parte del nostro mandato, del nostro obiettivo: quello di mettersi in gioco personalmente oltre che gestire servizi”.
A questo proposito il nostro intervistato apre una parentesi di estrema importanza: come si è evoluto il termine da “handicappato” a “diversamente abile”.
“Da un lato sicuramente certe etichette che venivano date una volta sono state superate, per fortuna. Io ho iniziato quando li chiamavano “storpi” prima ancora che handicappati quindi era proprio dispregiativo. Già handicappato era entrato nella nostra terminologia normale perché si parlava di handicap quindi una disabilità, tuttavia sembrava di identificare comunque qualcuno come una persona diversa. Siamo arrivati al “disabile”, da lì in poi “differentemente abile”. Continua ad andare avanti questa logica di adeguare la terminologia alla non etichettatura del diverso. Sono convinto che è necessario andare in questa direzione, cerchiamo però di avere sempre anche i piedi in terra: un conto è la terminologia un conto è il problema. Se la terminologia mi offre la possibilità di togliere il pregiudizio allora usiamola, ma questo non significa aver risolto tutti i problemi. Significa che tante famiglie rimangono con i loro figli con i loro problemi quindi deve essere una terminologia adeguata per la lotta allo stigma ma che non deve far pensare che abbiamo risolto i problemi. Andiamoci cauti. Ecco perché mi fa sorridere certe volte: perché viene usato non dico come se si nascondesse il problema ma come se il problema non esistesse. Questo lo dico da genitore adottivo di un figlio disabile”.
Quando si parla di disabilità e di persone con limitazioni funzionali, si cerca sempre di riferirsi a loro con termini che riteniamo “politically correct”, e questo rimane giusto nel momento in cui sarebbe necessario puntare all’inclusione migliore possibile nella società; tuttavia quello su cui Santo Boglioni fa luce è una linea sottile che distingue il rispetto per l’inclusione e una visione reale e oggettiva delle difficoltà che le persone con disabilità e le loro famiglie si trovano ad affrontare. È in questo secondo punto che le associazioni si trovano ad essere fondamentali, ed è da qui che ha origine il sogno di Santino, un sogno che talvolta esprime con rassegnazione e amarezza:
“Il mio sogno, quando sono arrivato in Trentino, era creare reti. Siamo ancora qua dopo 40 anni a parlare di reti, i successi in realtà non sono stati altissimi. Non si parla di rete tra simili , come dicevo prima, ma rete tra le associazioni del paese, con le casse rurali; non possiamo essere dei satelliti, ognuno non può pensare a sé. Non è così che si affrontano i problemi delle persone che abbiamo sui nostri territori, perché alla fine quello è, oltre al discorso della lotta alle discriminazioni, della lotta allo stigma per i nostri, c’è una battaglia che non finirà mai :che è culturale, che è di riconoscimento della diversità”.