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Piera Volpi Janeselli

 

Analisi Videointervista a cura di Alessandro Monari

 

Durante l’intervista la Signora Volpi ci mostra un grande coinvolgimento. Il tono di voce e la sicurezza assunti durante tutta la durata dell’intervista sottolineano quanto il vissuto dell’intervistata sia fondamentale per la narrazione e la spiegazione del lavoro che porta avanti da tutta la vita. Le gestualità che vediamo ricorrere sono minimali ma ben esplicative dell’importanza dei fatti/episodi  esposti descrivendo il suo impegno per la sicurezza sociale. I movimenti delle mani, ad esempio, scandiscono il susseguirsi degli eventi descritti sottolineando il cambiamento di prospettiva durante il racconto. Non vediamo quasi mai la Signora Volpi in difficoltà, bensì riusciamo a percepire il peso che l’assistenza sociale, sia positivamente che negativamente, ha avuto sulla sua vita. Le emozioni traspaiono in modo molto evidente dalle espressioni facciali che scandiscono le diverse fasi del racconto. Verso la fine dell’intervista possiamo notare una velata commozione che trasmette a chi ascolta un candore che le conferisce un immancabile credibilità.

L’intervista inizia con una domanda rivolta alla signora Volpi: “Com’è nato il suo interesse per il sociale e che cosa l’ha spinta ad intraprendere questa strada?”; parole che le permettono di introdursi e presentarsi. 

Riconosciamo dalla sua voce, la sicurezza con cui si rivolge allo spettatore. Piera parla del suo passato e degli avvenimenti che l’hanno portata ad avvicinarsi a questo mondo, in modo fluido e coinvolgente. E’ molto chiara e completa nell’esposizione; anche grazie ad esempi pratici per far calare lo spettatore nella sua storia. Abbiamo evidenti effetti di verità che aiutano l’immedesimazione. 

E’ interessante come il suo racconto inizi dalla descrizione della situazione sociale e culturale in cui crebbe negli anni dopo il liceo; in piena gioventù. Le influenze della madre, che pare stimare molto, la portano ad avere diverse idee riguardo l’aiuto, le organizzazioni umanitarie ed il servizio sociale.

L’ambiente socio culturale degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, porta a considerare quante poche fossero le possibilità per una giovane donna di potersi dedicare allo studio e alla propria formazione. In anni difficili per l’emancipazione femminile, la donna veniva ancora “lasciata da parte” nel caso di mansioni che fino ad allora si credeva competessero soltanto agli uomini. 

Fortunatamente la signora Volpi, riuscì a scavalcare questa barriera mentale che dilagava all’interno della società, intraprendendo la Scuola Regionale del Servizio Sociale (istituita poco dopo il 1946). 

Descrivendo con precisione la sua soddisfazione nell’aver intrapreso il percorso di Servizio Sociale, Piera sottolinea come nei primi anni ’50 non ci fosse ancora un’organizzazione vera e propria che si occupava dei problemi presenti all’interno della società. Al tempo, associazioni come la croce rossa erano le uniche fonti di appoggio per persone che necessitavano di aiuto. Presto però si comprese, che il loro supporto era considerato più un atto di carità che un vero e proprio lavoro riguardo la sicurezza sociale e della persona. L’organizzazione del servizio sociale, invece, poteva permettere di risolvere i problemi non fermandosi alla carità; bensì rivolgendosi direttamente al soggetto interessato e successivamente alla famiglia, con l’obiettivo di creare un percorso in direzione del benessere personale. 

Piera elenca passo per passo le diverse attività lavorative che le permisero di applicare le conoscenze apprese alla scuola di formazione. Consulente previdenziale in istituti medici-pedagogici per persone con disabilità a Nomi e assistente al CID, ovvero, il Comitato Italiano della Donna. Negli istituti medici-pedagogici la signora Volpi è a stretto contatto con persone disabili e con le famiglie che si occupano delle stesse. 

E’ peculiare l’impegno che l’intervistata dice di aver speso per promuovere e rafforzare il rapporto tra la famiglia e le persone assistite nell’istituto. Ci comunica con sincerità la palpabile difficoltà, nell’affrontare e gestire situazioni familiari complicate e intrise di disinformazione. 

Il lavoro al CID, diversamente dal suo primo incarico, le permise di operare a stretto contatto con ragazze che, per mancanza di lavoro stabile, sceglievano di prostituirsi. Il CID in aiuto a queste donne, spesso abbandonate a loro stesse, istituì una casa di accoglienza il cui obiettivo era la costruzione di progetti di recupero. 

Piera sottolinea spesse volte che il lavoro di assistenza non può essere considerato di mero ausilio pratico; ma come si tratti di: supporto psicologico; analisi dei rapporti familiari e non; conoscenza dell’ambiente e costruzione di una nuova realtà in cui è essenziale il rispetto per la propria persona. 

Gli obiettivi di queste associazioni, e dunque il suo, miravano al recupero di vite umane, restituendo dignità e rafforzando la persona indebolita dalle attività dannose di cui era schiava.

La signora Volpi, inoltre, riconosce come, nonostante il periodo e le radicate credenze su cui costruivano la propria vita, anche le suore presenti in struttura, comprendessero le difficoltà delle donne bisognose di sostegno. Il ruolo della suora come quello di Piera era costruito sull’aiuto diretto alla persona per cui non poteva esistere distinzione. 

Più tardi, nel 1963, Piera accetta una proposta di lavoro all’ospedale psichiatrico di Pergine. 

Il lavoro all’ospedale e le nuove tipologie di persone che doveva assistere la portarono a scegliere di intraprendere un percorso formativo in campo medico e psichiatrico. Scelta molto utile nell’ottica di rapportarsi con medici che trattavano malati di mente. 

“Avevamo un reparto osservazione uomini e donne,“agitati” uomini e donne e “stabilizzati”, e poi avevamo i “cronici”. I cronici che erano maso San Pietro e l’ospedale aveva anche la colonia, la chiamavamo, cioè alla costa di Viganzano, due stabili con un po’ di campagna e lì c’era la villa e la e la Costa dove mettevano in modo particolare gli alcolisti.” dice.

 

Il racconto della nuova realtà con cui doveva prendere confidenza, trasmette il senso di novità e disorientamento che provava nel confrontarsi con un ambiente del tutto più complesso di quello in cui era abituata ad operare. 

Descrivendo il nuovo lavoro, la signora Volpi accenna alla legge Nr.36 del 1904, che permetteva agli stessi direttori dei “manicomi” di decidere in merito al futuro degli “alienati” ovvero i pazienti psichiatrici. Decidevano chi fare uscire, quando e perché; anche se le persone non avevano ancora raggiunto un livello di sanità mentale adattivo alla società e a loro stessi. 

L’organizzazione dell’ospedale, sostiene Piera, non permetteva l’assistenza dei malati di mente a trecentosessanta gradi. Le sue parole traducono indignazione e pena per le persone assistite; che di assistenza diretta, a causa della legge in vigore, non potevano averne. 

“Pergine era etichettata come il paese del manicomio.” continua.

 

La persona, all’interno dell’ospedale perdeva la propria dignità anche solo guardandosi allo specchio a causa di vestiti e tagli di capelli (tuniche e caschetti), simili per tutti i pazienti. I trattamenti dedicati alla persona non potevano essere considerati trattamenti sanitari che giovassero alla loro salute. 

Per questi motivi, Piera, cerca di dare voce al ruolo del servizio sociale all’interno dell’ospedale, provando quantomeno a proporre progetti non a livello sanitario, ma di miglioramento. Sotto questo punto di vista, il direttore non poteva imporre la sua supremazia, non trattandosi di decisioni riguardo al sistema sanitario. 

Le richieste furono semplici ma importantissime per evitare la completa disumanizzazione dei pazienti. Tenere il proprio vestito; poter avere vestiti puliti e nuovi portati dalla famiglia; un servizio di parrucchieri per curare l’aspetto del malato. 

Progetti che andarono in porto migliorando la situazione di degrado in cui gli assistiti si trovavano e permettendo a Piera di acquisire un ruolo di maggior importanza.

Da quel momento in poi la signora Volpi entra nel vivo dell’esperienza lavorativa assistendo in prima persona alle vicende interne all’ospedale. Lotta per porre fine a situazioni di estrema carenza di umanità e rispetto per l’individuo, il quale doveva ricostruire fiducia in se stessa e nell’uomo.

 “Le lotte erano anche quelle, far capire che c’era una umanità e andava rispettata.”

Dal ’68 in poi, in pieno periodo di rivoluzioni umanitarie, movimenti culturali e politici in modo particolare nei confronti degli ospedali psichiatrici; la situazione iniziò lentamente a cambiare. 

La legge Mariotti Nr.431, ad esempio, ridimensiona la divisione dei medici, degli infermieri e dell’equipe assistenziale. Permette il rapporto con le famiglie e la possibilità riavvicinamento dell’assistito, ad un ambiente che poteva incoraggiarne la stabilità mentale. Le dimissioni dei pazienti furono concordate tra l’ospedale e l’assistente sociale che se ne occupava; dando maggiore importanza all’attività per cui Piera si batteva.

E da allora l’ospedale si trasformò nel luogo del lavoro d’equipe, dell’impegno sociale. 

“Si andava al ristorante, vestiti con i loro vestiti, cambiati; e si ricostruiva la personalità distrutta dalla patologia psichiatrica” dice Piera. Furono anni di graduale rivoluzione che permisero di riportare il malato di mente ad applicare le regole della vita. La terapia, il dialogo, l’ascolto ed il reinserimento nella società erano step necessari ad una guarigione completa dell’individuo. L’obiettivo, ora comune, era quello di permettere alla persona di trovare in se stessa e nella famiglia la forza di combattere per uscire dalla malattia, vivendo una vita degna di essere chiamata così. 

Arriviamo ora alla legge Nr.180, la rinomata Legge Basaglia del 1978. 

L’approvazione della suddetta, fornisce i termini perché l’ospedale psichiatrico chiuda definitivamente. L’ospedale psichiatrico di Pergine chiude ufficialmente nel 2002.

Leggiamo nel tono assunto dalla signora Volpi, una serenità pensierosa. 

Attraverso il subentro della nuova normativa nascono le cosiddette “strutture intermedie”, come la comunità Maso San Pietro a Pergine. La filosofia di queste strutture responsabilizza l’ospite rendendolo rispettoso tanto di se stesso quanto del progetto terapeutico a lui dedicato; pena l’accettazione della modifica di quest’ultimo. Si creano una serie di procedure per permettere all’individuo bisognoso di reinserirsi sul territorio, riprendendo contatto con la realtà e la vita vera. 

Il racconto di questi anni di cambiamenti drastici e rivoluzione, ci permette di respirare un’aria più leggera; di percepire umanità anche all’interno di contesti in cui era pressoché inesistente. 

 

Il rapporto tra la Politica ed il Servizio Sociale secondo la Janeselli

Piera racconta di aver avuto la possibilità, grazie alle cariche da lei ricoperte durante il percorso lavorativo, di rapportarsi direttamente con persone che potevano agire sulla realtà di tutti i giorni; responsabili del comune o di regione. 

Spesso prendeva parola al consiglio provinciale riuscendo a portare i suoi progetti.

Questo le permise di sottoporre il suo parere direttamente alle persone che possedevano il potere di agire sulla società; nonostante non fosse d’accordo con tante delle dinamiche politiche del paese. 

Secondo la Volpi, la chiusura immediata degli ospedali fu giusta ma, al contrario, furono poco concepite le conseguenze di questa azione. Ad esempio, immediatamente dopo la chiusura degli ospedali e la dispersione degli ex pazienti, le stazioni ferroviarie pullulavano di queste persone. Individui non più seguiti da nessuno, che avrebbero potuto regredire fino a peggiorare in modo irreversibile. Per questo sostiene che la politica non abbia esaminato l’effetto futuro della legge stessa. 

“Devi dare un riferimento perché l’ammalato psichiatrico è imprevedibile.” dice “Allora la politica deve capire il punto estremo di ogni cosa perché…va tenuto in considerazione  quella che è la situazione di una normale interpretazione della malattia mentale vista dal punto di vista organico; ma anche dal punto di vista psicologico può veramente darti la possibilità di avere il dialogo con la persona, di capire l’ambiente, “perché ha sta depressione?”: ha perso il lavoro, ha perso un figlio, litiga con la moglie, non va d’accordo con la suocera, beve un po’ qualcosa, si droga, perché adesso c’è anche quello, cioè tutte queste cose vanno valutate.”

 

Le sue parole fanno intendere quale sia il suo punto di vista riguardo al rapporto tra le azioni politiche apparentemente a favore della situazione sociale e la condizione degli assistiti. E’ importante capire la realtà dei fatti se a questa realtà è necessario apportare modifiche di ogni genere. 

La Volpi rafforza le sue convinzioni con un esempio valido riguardo la “contenzione coatta”. La contenzione dell’individuo può esistere, sostiene, ma questa non deve essere concepita come una punizione; bensì come supporto alla terapia. 

“Serve un equilibrio, è la realtà che bisogna riuscire ad interpretare.”

 

Aver lavorato nell’ambito del servizio sociale psichiatrico, afferma, le ha permesso di crescere culturalmente, di dare possibilità e riceverne altrettante. Ha imparato a non farsi coinvolgere dall’emotività degli altri comprendendo le sue fragilità e i suoi limiti. Il servizio sociale le ha concesso una crescita personale attraverso la maturazione di personalità che necessitavano della sua vicinanza. 

L’attitudine pedagogica della Janeselli include nei suoi discorsi anche diverse sfaccettature riguardo la sua personale considerazione del servizio sociale, oggi.

Comprendiamo dalle sue parole che negli ultimi anni si avverte meno la paura, ci si espone di più senza badare al il timore di non essere accettati; si crede meno nella stereotipizzazione dell’assistente sociale. Ciononostante, sostiene Piera, un grande aiuto all’assistenza sociale odierna potrebbe risiedere nella conoscenza del territorio.

 “Il territorio deve essere vissuto e conosciuto” dice.

Che cosa direbbe a chi vuole intraprendere questo percorso?

Una domanda doverosa per una persona così impegnata a condividere la devozione per la professione di una vita. 

La signora Volpi, con fermezza, consiglia agli aspiranti assistenti sociali di prendere consapevolezza riguardo la loro scelta di percorso; ribadendo che non si tratta di fare semplice assistenza bensì di incrementare la sicurezza dell’assistito. 

Il suo racconto esemplare descrive l’assistenza sociale come un lavoro di grande responsabilità e diligenza; in cui è necessario trovare il modo per trasformare un’esistenza distrutta, in una vita degna. Le possibilità economiche e organizzative della provincia autonoma di Trento, soprattutto oggigiorno, sono molto elevate e con queste anche la speranza di un continuo miglioramento del servizio sociale. In questa epoca tutto è in evoluzione ed in questo “tutto” è compreso il servizio assistenziale e le persone stesse. 

“Oggi è un po’ impossibile rimanere allacciati ad una realtà di intervento “vecchia”, perché i rapporti cambiano”. 

In conclusione possiamo vedere il lavoro dell’Assistente Sociale con occhi critici e fiduciosi; è una professione nobile e fondamentale per concedere la giusta importanza all’ascolto, al confronto e al dialogo con le persone. 

Le emozioni descritte e ricordate dalla signora Volpi traducono la vera essenza delle esperienze riguardo situazioni sociali complicate, con cui ha avuto la possibilità di confrontarsi e su cui ha agito in prima persona.  Il contatto con ragazzi, ragazze, uomini e donne; giovani e anziani; figli; madri; padri di famiglia; l’hanno resa consapevole del valore umano e del peso che quest’ultimo deve acquisire per ogni componente della società. 

L’intervista traspare un processo di crescita personale della Janeselli; una crescita interiore e formativa per la persona che è diventata. Partendo dalle difficoltà riscontrate con i medici della vecchia guardia, il rapporto con i pazienti più difficili. Passando dagli assistiti a cui era più legata. Arrivando alla scoperta dei suoi limiti e all’affermazione della propria consapevolezza, Piera, è serenamente convinta di quanto la sua vita sia stata piena di soddisfazioni, tanto da portarla a credere fermamente nell’umanità e nell’aiuto reciproco. 

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