La fondatrice del servizio sociale professionale di Bruno Bortoli – Università di Trento
Mary E. Richmond (Belleville, Illinois, 5 agosto 1861 New York, 12 settembre 1928)
La democrazia non è una forma organizzativa; è un’abitudine quotidiana. Non è sufficiente che gli assistenti sociali parlino il linguaggio della democrazia; prima che essi si dimostrino adatti a una forma qualsiasi di servizio sociale, bisogna che portino nel loro cuore l’intima convinzione del valore infinito rappresentato dalla nostra caratteristica comune, quella di essere uomini. (Mary Richmond)
Mary Richmond e Jane Addams1: affinità e differenze
Nell’immaginario di molti che si accostano alla storia del servizio sociale, Mary Ellen Richmond e Jane Addams formano un binomio quasi naturale. In effetti, le caratterizzano congiuntamente l’essere quasi coetanee, l’attività nello stesso contesto, l’avere assolto un ruolo di guida ideale per molti operatori sociali di ogni generazione. Ciò ha sollecitato riflessioni molto interessanti che permettono di capire meglio il ruolo complessivo svolto dal servizio sociale nella cultura americana (Franklin, 1979). Tuttavia, dal punto di vista storico sarebbe poco sensato procedere oltre con questi parallelismi, perché le differenze che caratterizzano le due figure sono più marcate delle affinità.
Fra loro ci sono differenze di estrazione sociale che si riverberano sulle possibilità di acquisizioni culturali. Per Jane Addams non vi è praticamente ostacolo nella fruizione di risorse formative e di altre opportunità, mentre Mary Richmond acquisirà una importante cultura prevalentemente da autodidatta, trovando gli spazi per un percorso di elevazione culturale fra gli impegni di solidarietà familiare ed attività lavorative di vario tipo.
Unitamente alle diversità concernenti l’ambiente d’origine e le diverse vicende della vita, l’accostamento fra i due personaggi è reso difficile anche dai luoghi di attività: la Costa Atlantica per Mary Richmond e Chicago per Jane Addams, luoghi non solo distanti geograficamente ma soprattutto culturalmente.
Anche certe scelte di vita contribuiscono alla differenziazione: il periodo bellico rappresenta il momento di «oscurità» per Jane Addams in virtù delle sue scelte pacifiste; Mary Richmond, invece, non è pacifista, anche se prova simpatia per gli obiettori di coscienza e condivide la politica di «non intervento» del presidente Wilson. Quando però la decisione di entrare in guerra viene presa, aderisce alle motivazioni che la giustificano e collabora con convinzione allo sforzo bellico ottenendo riconoscimenti e prestigio.
Infine, se in Jane Addams prevale l’anima radicale del liberalismo orientata alla riforma morale e sociale, in quella di Mary Richmond, pur altrettanto profondamente democratica, prevale l’etica della scelta individuale come motore principale dello sviluppo anche collettivo.
I difficili anni giovanili
Anche Mary Ellen Richmond, come Jane Addams, nasce nell’Illinois, il 5 agosto 1861, durante la guerra di Secessione. Ben presto però si trasferisce con la famiglia a Baltimora, in Virginia, dove trascorre l’infanzia. Alla morte dei suoi genitori, deceduti molto giovani di tubercolosi, viene cresciuta dalla nonna e da una zia. Ambedue appartengono a un ambiente sociale economicamente modesto, ma molto aperto. Questa famiglia, piuttosto anticonvenzionale, non condivideva i metodi educativi del suo tempo e così Mary Ellen entrò a scuola soltanto a undici anni di età. Aveva tuttavia imparato a leggere molto precocemente e, lasciata libera di scegliere, aveva potuto accostarsi in maniera appassionata a tutti i testi scritti che le erano capitati per le mani. Queste letture rappresentarono la sua principale forma di istruzione, non molto elaborata, ovviamente, ma — come lei stessa avrebbe avuto modo di dire in seguito — caratterizzata dalla «continuità».
Come per tutta la sua educazione, anche quella religiosa avvenne quasi per caso. Rifiutò di accettare qualsiasi dogma e tutto ciò che non soddisfaceva la sua intelligenza o il suo senso estetico. In base a questi canoni, aderì alla Chiesa Unitaria, nella quale ebbe l’opportunità di stringere profonde amicizie.
Nel 1978, a diciassette anni, lasciò la scuola munita del suo diploma e partì per raggiungere la zia che lavorava in una casa editrice a New York. Vi venne assunta come segretaria, ma svolgeva molteplici altre funzioni, fra cui quella di grafica e correttrice di bozze. La sera, dopo giornate lavorative di 12-14 ore, era occupata a studiare stenografia. La vita era dura e l’alloggio non andava oltre una camera ammobiliata, condivisa con la zia. Ma la situazione era destinata ben presto a peggiorare ulteriormente: la zia cadde malata e ritornò a Baltimora, dove resterà fino alla morte, assistita finanziariamente dalla nipote. Sola, quasi senza amici (assistere a qualche conferenza era la sua unica distrazione), obbligata a far fronte con scarse risorse a questo gravoso impegno, Mary Ellen Richmond dirà che questo fu il periodo più amaro di tutta la sua esistenza.
Qualche tempo più tardi contrae la malaria. È costretta a lasciare il lavoro e New York per ritornare a vivere a Baltimora. Rimessasi in salute, prima trova lavoro in una piccola libreria, poi, nel 1888, come segretaria contabile in un modesto albergo.
Tutte queste traversie non modificano il suo itinerario da autodidatta. Questo periodo della sua vita è contrassegnato dall’apertura alla musica e alla filosofia. Insegna alla Sunday School2, formando giovani della sua età allo studio dei testi di Shakespeare. Il suo ascendente e la sua fama prendono piede.
L’incontro con il social work e l’attività a Baltimora
Con l’allargamento dei suoi campi di interesse e lo sviluppo delle sue capacità, la Richmond avverte con sofferenza la monotonia del suo lavoro. Dagli annunci economici di un giornale viene a sapere che la Charity Organisation Society3 di Baltimora cerca una segretaria-ragioniera. Per quanto conosca poco questo organismo vi si presenta, in una sera piovosa, per un colloquio con il presidente. Costui dirà più tardi che Mary Ellen aveva l’aria pateticamente giovane, ma parlava come una saggia persona anziana. Nel corso di questo colloquio la Richmond comprende le possibilità che le si aprono. L’associazione è giovane, indebitata, ma si batte per promuovere le proprie idee. Incoraggiata dai suoi amici, la giovane accetta la sfida. Nel corso di uno stage introduttivo di una settimana, a Boston, entra per la prima volta in contatto con degli operatori sociali impegnati nell’elaborare i primi rudimenti del case work4 In modo particolare, conosce Zilpha D. Smith5 che diventerà la sua ispiratrice e consigliera. Di ritorno a Baltimora, prende servizio come segretaria contabile e viene ben presto incaricata anche del reperimento dei fondi.
La COS di Baltimora era stata fondata nel 1881 da Daniel C. Gilman6 dell’Università John Hopkins. Aveva potuto contare sulla collaborazione di un giovane e brillante operatore sociale, Amos G. Warner7, che aveva sviluppato l’assistenza a domicilio erogata in maniera «intelligente» ossia basata su di un’approfondita inchiesta finalizzata ad individuare le richieste fraudolente. In questo modo, la COS intendeva perseguire l’obiettivo di puntare alle cause della povertà e della corruzione politica. Promuoveva la cooperazione tra gli organismi sociali e gli individui stabilendo una relazione democratica, un ponte tra i privilegiati e i diseredati, tra i ricchi e i poveri, in modo particolare con l’aiuto dei friendly visitors. È la cosiddetta «filantropia scientifica»8. Questa concezione viene accettata con entusiasmo dalla Richmond, che, accogliendola in toto, vi consacrerà il resto della sua vita.
Nella primavera del 1890, a Baltimora si tiene la National Conference of Charities and Corrections (NCCC) che dà l’occasione a Mary Ellen Richmond di conoscere e incontrare i leader di questo movimento. È anche l’occasione per lei di presentare la sua prima importante comunicazione. Il riscontro è positivo, tanto che le viene proposto il posto vacante di segretario generale della sua COS, malgrado la sua giovane età, l’appartenenza di genere e la sua mancanza di titoli accademici9. La Richmond, desiderosa di promuovere una maggior preparazione dei friendly visitor e dei volunteers social service, accetta e contribuisce attivamente alla loro professionalizzazione. Sviluppa numerosi corsi di formazione per gli operatori sociali del suo movimento accogliendoli anche a casa sua per delle lunghe serate di lettura e di discussione, favorisce la istituzione di biblioteche negli organismi locali. Alla conferenza di Toronto, nel 1897, pronuncia una brillante arringa a favore della formazione e la creazione di scuole di servizio sociale10. Nel 1898 contribuisce alla creazione della prima scuola di New York11. Col tempo predispone un piccolo ma importante manuale: Friendly Visiting Among the Poor (1899), in cui puntualizza gli aspetti più importanti dell’azione assistenziale a domicilio: le condizioni di salute, i figli, la religiosità, le spese e il risparmio. È a partire da questo testo che appariranno in seguito le espressioni social worker e poi social case worker.
La pratica del friendly visiting aveva interessato la Richmond fin dall’inizio del suo lavoro alla COS. Il suo contributo fu orientato a trasformarla in deliberato e costruttivo case work. Le primissime investigazioni degli operatori andavano alla ricerca della «prova» relativa al bisogno finanziario. Quando la COS era agli esordi della sua attività, questo veniva fatto dal district agent. Ma la «teoria» sviluppata nell’ambito della COS cercò di andare oltre il bisogno materiale e il sussidio per considerare «l’immateriale», ossia i fattori morali di dipendenza. Questi potevano essere definiti come debolezze di carattere, ma per la maggior parte erano un misto di ignoranza, confusione, solitudine e disperazione. Lo slogan coniato per il visitatore, «non elemosina ma un amico»12, era fatto proprio da molte COS.
Sicuramente i fattori immateriali e il sostegno morale erano importanti, ma non era ancora abbastanza, dal punto di vista dei responsabili più aperti come Mary Richmond che mal sopportavano il paternalismo del friendly visiting e la loro ossessione di scoprire «i truffatori». Nel processo di elaborazione degli standard «scientifici» per la pratica di case work, dove prevalevano progetti filantropici non professionali, si rischiava talora di scivolare nella fredda formalità e nella disumanizzazione. Così la raccomandazione rivolta al visitatore diventava: «Non essere insensibile o snob! Abbi tatto e acquisisci la loro fiducia, sii competente e razionale! Aiuta le persone a vedere le proprie responsabilità e le loro opportunità, fa che trovino la propria strada». A questo punto il visitatore non è più l’unico protagonista: «il cliente»13 è altrettanto importante. Ma, in che modo il visitatore può applicare queste consegne? E che cosa deve fare? È nel cercare di rispondere a queste domande che si originano la motivazione e il metodo dell’assistente sociale.
Miss Richmond, assieme ad altri leader, fu in grado di salvaguardare una prospettiva umanitaria, mentre al tempo stesso la arricchiva di elementi tratti dalla sociologia e dalla psicologia. La considerazione degli incommensurabili fattori soggettivi, affermava, era vitale per la comprensione dei problemi del cliente. La vecchia relazione paternalistica veniva rifiutata perché rendeva il cliente dipendente dall’operatore; l’autostima e l’autonomia erano i veri obiettivi e potevano essere raggiunti mediante la comprensione di sé e l’auto aiuto. Il rispetto per l’integrità e la dignità potenziali dell’individuo, assieme al riconoscimento della varietà infinita delle persone e la complessità infinita di ogni problema, erano centrali nel pensiero della Richmond. Per quanto legittima e necessaria fosse la riforma sociale, ci sarebbe stato sempre bisogno dell’intervento sul caso individuale. Come affermava un suo collega14: l’azione sociale ha a che fare con l’insieme, il case work con il dettaglio. Ambedue sono essenziali.
Il trasferimento a Philadelphia e lo sviluppo del case work
La fama relativa al buon lavoro compiuto a Baltimora vale a Mary Richmond l’invito a trasferirsi a Philadelphia, per ricoprire il posto di segretario generale della COS con l’obiettivo di riorganizzarla. La Richmond accetta e si trova così a confrontarsi con numerosi problemi: infatti la COS di Philadelphia era divenuta, col tempo, soltanto un «cumulo di buone intenzioni» (Woodroofe, 1961, p. 102). A Philadelphia, senza trascurare le sue altre attività, trova il tempo di praticare essa stessa il case work per dimostrare la validità di questo metodo e anche qui ne applica i principi organizzativi: prendere in considerazione il caso individuale di bisogno, ricercarne le cause nella cerchia familiare e ambientale, utilizzare i dati ricavati per promuovere riforme sociali. È così che propone alle amministrazioni locali vari tipi di miglioramenti normativi soprattutto rispetto alla condizione delle donne e dei minori. Il suo obiettivo è quello di evidenziare i bisogni, di rivelare le carenze e poi di suscitare all’esterno della Society di Philadelphia l’attuazione di apposite modalità d’intervento e la creazione di un’organizzazione che le incentivi e le coordini (un esempio di questo tipo di azioni si ebbe con la lotta contro i tuguri e la sperimentazione di abitazioni sociali «modello»). La sua procedura è quella di lanciare un movimento, per poi passare la mano e rifocalizzarsi sul case work con le famiglie.
In questi anni Mary Ellen Richmond può fruire di opportunità nuove. Nel 1903, durante un viaggio con degli amici in Gran Bretagna e in Scozia15, affianca l’interesse culturale per le varie zone visitate con lo studio del «servizio sociale» locale: incontra operatori sociali, visita le settlement houses e opifici, è presente alle riunioni dei comitati distrettuali della COS di Londra.
Di ritorno negli Stati Uniti, partecipa attivamente agli incontri della NCCC (a L’Avana, Portland, Philadelphia) e diventa una figura conosciuta a livello nazionale. Senza sosta persegue l’elaborazione della procedura del case work (in seguito ampiamente adottata) e la sua attività di insegnamento. Tiene dei corsi in modo particolare a New York, all’Università della Pennsylvania e contribuisce indirettamente alla creazione della Scuola dei servizi sociali e sanitari della Pennsylvania.
Attività di ricerca e formazione alla Russel Sage Foundation
Istituita a New York nell’aprile del 1907, la Fondazione Russell Sage16 diventa fino alla Prima guerra mondiale la principale fonte di finanziamento delle nuove professioni sociali. Finanzierà le quattro scuole di servizio sociale allora esistenti: quelle di New York, Boston, Chicago e Saint-Louis. Grazie ad un accordo amichevole con la COS di Philadelphia, Mary Ellen Richmond viene nominata direttrice del Dipartimento dell’organizzazione dell’ assistenza in questa nuova fondazione. Lo scopo della struttura era «ricercare, formare e diffondere sapere nel campo dell’organizzazione dell’assistenza inteso in senso lato, tale da comprendere anche il miglior coordinamento di tutti i servizi sociali» (Woodroofe, 1961, p. 104).
Per due anni Mary Richmond prosegue l’attività anche presso la COS poi, dal 1909, lavora a tempo pieno nella Fondazione, a New York. Tre mesi dopo il suo arrivo, avvia lo sviluppo del settore della ricerca sociale con una valutazione degli interventi proposti alle vedove con famiglia a carico e ai loro bambini. Nel 1913, assieme a C.C. Carstens, già suo collaboratore a Philadelphia, conduce una specifica ricerca sull’ amministrazione dei sussidi a favore delle vedove e dei loro figli. I risultati vengono pubblicati lo stesso anno provocando scalpore e giudizi contrastanti fra chi era favore e chi era invece contrario all’erogazione di tali contributi economici. Mary Richmond rimane colpita da questa reazione, che divide in due il campo assistenziale e che non era prevista, tanto che non affronterà più questa tematica17.
Le prime pubblicazioni della Fondazione Russell Sage, i cui autori sono i ricercatori dipendenti dall’organizzazione, appaiono nel bollettino Charities and the Commons18. Mary Ellen Richmond vi pubblicava regolarmente i suoi studi di caso, ad uso degli insegnanti e degli studenti di case work. D’altra parte continuava a tenere dei corsi a Boston, Chicago, New York. Ogni primavera gli operatori sociali formati al case work venivano invitati per un mese a New York, presso la sede della Fondazione, per discutere i loro comuni problemi. Mary Ellen Richmond si dedicava anche alla formazione di chi collaborava con i segretari generali dell’associazione, alla preparazione dei supervisori, fra i quali organizza periodiche conferenze. In questo modo, era in contatto sia con i giovani social case worker che con gli esperti.
È durante questi anni di intensa attività che Mary Richmond inizia il suo lungo e talvolta faticoso processo di concettualizzazione, attraverso il quale insegna alle sue allieve a considerare il trattamento degli individui come un processo globale, all’interno del quale le tecniche possono essere ordinate, descritte, analizzate e trasmesse da una generazione di assistenti sociali ad un’altra.
«Social Diagnosis»
La prima fase del lavoro di Mary Ellen Richmond al Dipartimento si conclude con la pubblicazione di Social Diagnosis (1917). La tematica non intendeva certo esaurire il campo del case work, ne rappresentava però la fase iniziale: quella, come affermò l’autrice nella prefazione, che trovava spesso carente nell’azione delle sue colleghe social worker.
Mary Richmond aveva concepito Social Diagnosis già a Baltimora. Fin dal 1902 aveva cominciato a mettere insieme il materiale necessario e le relazioni concernenti l’aiuto alle famiglie, approntate da numerosi assistenti sociali appartenenti a più di cinquanta enti assistenziali. Alla fine del 1912 aveva raccolto i tre quarti dei casi sociali da far confluire nel volume e aveva cominciato ad analizzarli. La redazione inizia nel 1913: l’ambizioso programma è quello di uno studio voluminoso, basato su2800 casi. Il progetto del libro evolverà, necessitando una revisione costante nell’articolazione degli argomenti. A un certo punto, consapevole dei suoi limiti di autodidatta e della mancanza di specifici studi universitari, Mary Richmond interrompe la stesura del testo perché sente il bisogno di approfondire le diverse metodologie di indagine utilizzate nel diritto, nella storia, nella psicologia e nella filosofia. Prende contatto con docenti universitari, sottopone loro il manoscritto per averne giudizi e suggerimenti.
Il libro doveva inizialmente intitolarsi FirstSteps in Treatment, ma nel 1916 venne scelto definitamene il titolo Social Diagnosis. La sua uscita sul mercato avverrà nel maggio del 1917.
Il modello di riferimento era quello operativo del suo tempo, cioè quello in cui i diversi passi procedurali erano compiuti da persone diverse: l’inchiesta veniva effettuata dall’operatore retribuito (district agent), la programmazione dell’intervento era elaborata dal comitato di distretto e la «riabilitazione» spettava al friendly visitor.
Nel testo, la Richmond affrontò in maniera dettagliata tutti i tipi di notizie reperibili su un caso, sviluppò come esse potevano essere raccolte attraverso una ricerca sistematica e creativa, analizzò come pesarle e utilizzarle. Non si limitò a basarsi soltanto sull’esperienza dei friendly visitors, ma prese in considerazione anche tutti i progressi nel campo delle scienze mediche e umanistiche che potevano venire impiegati nel processo di aiuto.
In questa, come nelle altre sue pubblicazioni, la Richmond trasfonde la sua concezione del social case work basata sulla convinzione che le relazioni fra le persone e il loro ambiente sociale siano il fattore principale della loro situazione di vita o del loro status. Sono gli aspetti sociali a prevalere, anche perché mancano ancora degli strumenti adeguati per l’indagine psicologica. Così i problemi sociali risentiti da una famiglia o da un individuo vengono osservati in primo luogo considerando detta famiglia o detto individuo, in seguito prendendo in considerazione i legami sociali più stretti come quelli relativi alla comunità familiare, scolastica, religiosa e lavorativa. Infine il case work si sarebbe dedicato alla comunità più vasta e all’amministrazione, segnalando i bisogni da affrontare sul piano individuale e familiare e indicando il modo con il quale si sarebbe potuta aiutare la persona o la famiglia a intraprendere le iniziative utili a migliorare la propria situazione. Un’altra convinzione della Richmond era il focalizzarsi sui punti di forza della persona e della famiglia, piuttosto che biasimarli per ciò che non andava bene. Questa idea, oggi così diffusa nel servizio sociale da apparire scontata (perlomeno sul piano teorico, forse meno su quello operativo), all’epoca suonava rivoluzionaria, dato che seguiva decenni in cui l’approccio principale consisteva nel rimproverare l’individuo portatore di problemi.
La parola «diagnosi»19 rappresentava una novità: l’espressione più abituale fra gli assistenti sociali per determinare la fase iniziale del loro intervento era «indagine» (investigation). «Nella diagnosi sociale c’è il tentativo di giungere alla definizione più esatta possibile della situazione sociale e della personalità di un dato cliente. L’indagine, o la raccolta di dati oggettivi (evidences) dà avvio al processo, seguita dall’esame critico e dalla comparazione dei dati; alla fine giunge la loro interpretazione e alla definizione della difficoltà sociale.» (Richmond, 1965, p. 51) Nel linguaggio abituale degli assistenti sociali, il termine «investigation» indicava tutto questo processo. Secondo la Richmond ciò risultava confusivo: portava da un lato sovrastimare la raccolta dei dati e, dall’altro, non evidenziare le procedure, altrettanto necessarie, di comparazione e di interpretazione degli stessi. Il termine «diagnosi» le appariva più appropriato a definire l’intero processo, benché in senso stretto si riferisse specificamente alla sua fase finale. Un vantaggio ulteriore dell’utilizzo del termine «diagnosi» stava nel suo uso in campo medico e nella sua correlazione al dato temporale:
Naturalmente una diagnosi può, e spesso deve, essere rivista, ma il dato temporale, unitamente all’azione del professionista, rappresentano i punti di riferimento per la validazione della diagnosi nel servizio sociale. (Richmond, 1965, p. 52)
Il successo fu immediato e di vaste dimensioni, soprattutto perché il libro apportava un notevole contributo al rafforzamento dell’identità e della legittimazione della giovane professione. Un successo inatteso, che certamente fece piacere alla sua autrice ma le arrecò anche qualche preoccupazione: l’ansia delle operatrici di avere trovato «il metodo» si riverberava sul lavoro, facendo loro perdere di vista tutte le altre dimensioni valoriali e operative. Per questo Mary Richmond affermerà:
Ho passato venticinque anni della mia vita nel tentativo di rendere il case work accettato come valida procedura nel servizio sociale. Ora spenderò il resto della mia vita a cercare di dimostrare alle social caseworker che il servizio sociale è molto di più del case work. (cit. in Bruno, 1957, pp. 186-187)
La collaborazione con la Croce Rossa durante il primo conflitto mondiale
Nel 1914 Mary Richmond è preoccupata dal possibile ingresso in guerra degli Stati Uniti. Tuttavia quando la decisione viene presa si sente coinvolta in prima persona ed auspica la vittoria del suo Paese soprattutto come vittoria della democrazia e dei diritti umani. Con una originale iniziativa, mette a servizio della nazione le sue competenze tecniche, quelle del case work. Inventa il nome di Home Service per l’azione svolta, nell’ambito della Croce Rossa americana, per le famiglie dei militari chiamati a combattere in Europa. Nel giugno del 1917 redige un opuscolo di 36 pagine, pubblicato dalla Croce Rossa, nel quale cerca di esporre nel modo più semplice possibile i principi essenziali e i metodi del case work. Centinaia di migliaia di volontari frequenteranno i brevi corsi di formazione e studieranno il libretto della Richmond 20 e questo favorirà una diffusione senza pari del metodo e della professione.
Al termine del conflitto, la struttura organizzativa che coniuga la Croce Rossa con il Servizio Sociale viene vista da alcuni come una risorsa da trasformare in motore per un ambizioso programma sociale e sanitario ma Mary Richmond vi si oppone. Non vede di buon occhio la creazione di un qualsiasi organismo centralizzato e dirigista del Servizio Sociale. Avrebbe potuto rappresentare la creazione di un sistema di welfare ante litteram, ma a suo avviso era assolutamente inopportuno perché cozzava contro i principi irrinunciabili della libertà individuale in ogni campo, principi che erano patrimonio della società americana e dei quali Mary Richmond era convinta assertrice.
Gli ultimi anni
L’influenza di Miss Richmond, che si era via via rafforzata dall’inizio del secolo, giunse fino agli anni del primo dopoguerra. Ma il servizio sociale volse sempre più l’attenzione agli aspetti e agli strumenti psicologici, tendendo a distaccarsi dalle tecniche di casework sociologicamente orientate, di cui Mary Richmond era stata la pioniera. «Ignominiosamente»21 sconfitta alla presidenza della Conference of Social Work del 1922, ebbe modo di assistere alla severa messa in discussione delle sue procedure di analisi e di trattamento. Ma, per quanto alle giovani generazioni quelle specifiche procedure di lavoro sul caso potessero apparire demodé, il suo equilibrato approccio continuò a informare la generalità del servizio sociale. Seguendo la sua guida, le caseworker degli anni Venti ebbero la possibilità di concentrarsi con uguale facilità sull’aiutare l’individuo a trovare la propria strada verso l’autonomia, quanto sul ricercare le cause della dipendenza, dello sfruttamento e dell’insicurezza sociale per promuovere una legislazione protettiva, finalizzata ad innalzare il livello di vita della generalità delle famiglie, specialmente quei milioni di famiglie che vivevano ai margini di un’esistenza decente.
L’ultimo importante lavoro di Mary Ellen Richmond è il testo intitolato What is Social Case Work? (1922)22, tanto pensato, ma poi non corrispondente agli obiettivi iniziali. È in sostanza un’introduzione al case work e alla professione del servizio sociale. Vengono passati in rassegna diversi tipi di servizio sociale: quello ospedaliero, quello familiare, quello aziendale e anche alcuni aspetti di quello giudiziario. In questo lavoro approfondisce ulteriormente due concetti ricorrenti: quelli di personalità e famiglia, che ritiene possano evitare alla social diagnosis di divenire un’operazione meccanica. L’obiettivo della diagnosi e dell’intervento è proprio quello di favorire il «funzionamento sociale». Il «social case work», afferma in questo testo la Richmond «consiste in quei processi che sviluppano la personalità attraverso adattamenti consapevolmente effettuati, individuo per individuo, tra gli uomini e il loro ambiente sociale.» (Richmond, 1922, p. 98, cit. in Leiby, 1978, p. 123). Per «personalità» intende l’individualità biologica più una crescente e dinamica relazionalità: un «sé esteso» (widerself). La vita, riteneva, era una tensione tra la tendenza dei singoli individui verso la loro autorealizzazione (all’origine della diversità umana) e l’interdipendenza. In questa tensione l’elemento più critico ma anche la risorsa più importante era l’ambiente di vita e il nucleo familiare: è qui che vengono apprese le prime lezioni di individualità e socialità. Ogni tentativo di realizzare i necessari adattamenti doveva considerare, congiuntamente, l’individuo e il suo più prossimo ambiente di vita.
Un secondo tema che preoccupava la Richmond era la relazione tra il case work, che aveva per obiettivo quello di migliorare la situazione e le prospettive di una singola persona o unità familiare, e gli obiettivi più ampi della riforma sociale. Era sensibile alla critica avanzata più volte nei decenni precedenti che l’assistenza individuale era un sollievo temporaneo mentre un vero miglioramento avrebbe potuto avere luogo solo con degli atti normativi rivolti a tutti i cittadini. Pensava che l’assistenza individuale e l’amministrazione sociale facessero parte di un tutto unico descritto come l’insieme di metodi individuali e collettivi di riforma sociale. La riforma più efficace, affermava, iniziava affrontando i problemi delle singole persone, seguita poi, se necessario, dalla proposta e dal patrocinio di una riforma legislativa e da un’azione amministrativa per la sua applicazione. Il suo atteggiamento verso la riforma sociale era lo stesso che teneva nei confronti dell’assistenza: il suo desiderio era quello di disciplinare e concretizzare gli impulsi umanitari per mezzo di una deliberata diagnosi e di un ben pensato intervento (Leiby, 1978, pp. 123-124).
Mary Richmond continua ad impegnarsi a fondo nell’organizzazione della professione. Tuttavia la salute comincia a declinare e, a partire dal 1918, è costretta a periodi di riposo sempre più lunghi. Nel 1921 ha il piacere di ottenere a titolo onorifico il Master of Arts dello Smith College «per avere fondato scientificamente una nuova professione» (Bouquet, 2002, p. xvi). L’anno successivo lascia definitivamente il suo incarico alla Russel Sage Foundation.
Il suo ultimo impegno sarà quello di proporre, per il 1927, la celebrazione del cinquantesimo dalla fondazione della Charity Organisation Society negli Stati Uniti. Vi presenzierà ormai quasi invalida e la sua comunicazione verrà calorosamente applaudita.
L’anno successivo le viene diagnosticato un tumore maligno, inoperabile. Trascorre gli ultimi giorni a casa sua correggendo le bozze di una ricerca che uscirà postuma (Richmond e Hall, 1929) e attendendo serenamente la morte, che giungerà il 12 settembre 1928.
L’artefice di un grande progresso
Le diversità fra Mary Richmond e Jane Addams che abbiamo evidenziato all’inizio di questo articolo avranno un ruolo anche nella fama altalenante che i due personaggi matureranno nel mondo del servizio sociale: se Jane Addams, mentre è in vita, soggiace a opinioni molto contrastanti, Mary Richmond vede esaltate le sue qualità organizzative e riflessive, con importanti ruoli dirigenziali e la pubblicazione di un libro che in quegli anni è un vero bestseller. Nei decenni successivi, con la prevalenza di un servizio sociale marcatamente psicologistico, la collocazione dei due personaggi, sia pure per motivi diversi, rimane abbastanza in ombra e ciò fino agli anni Settanta, quando la crisi del servizio sociale improntato sul casework porta in nuova evidenza le intuizioni delle due capofila: il servizio sociale generalista per Mary Richmond e il servizio sociale di comunità per Jane Addams.
Negli anni recenti è soprattutto quest’ultima a venire «celebrata», probabilmente perché i suoi meriti di femminista e pacifista riescono soltanto oggi ad apparire in tutte le loro dimensioni. Mary Richmond non gode invece della fama che meriterebbe per il suo determinante contributo alle procedure organizzative e di intervento, alla formazione e alla ricerca, contributo per il quale può essere considerata la «vera» fondatrice della scienza del servizio sociale.
Ciò è confermato anche da uno storico importante come Clarke A. Chambers. A suo parere, succede di rado che a una singola persona o a una singola opera possa essere attribuito il merito di un grande progresso in un campo vasto e complesso, come il servizio sociale. Mary Richmond costituisce una straordinaria eccezione: da giovane aveva trovato quello che in seguito sarebbe stato chiamato «casework familiare» ridotto alla attività prevalentemente inquisitiva delle friendly visitor volontarie. «Nello spazio di una generazione, con la parola detta, stampata e con la sua notevole influenza personale, miss Richmond introdusse standard professionali, nuove abilità tecniche e una nuova filosofia, tutti adeguatamente basati su una ricerca minuziosa, sull’esperienza pratica e su un’ampia letteratura negli studi sociali e psicologici contigui» (Chambers, 1963, p. 97).
Bibliografia
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NOTE:
1 Si veda la biografia della Addams
2 Questa istituzione, originariamente una sorta di «dottrina catechistica», nel corso dell’Ottocento si trasformò in un’iniziativa di istruzione per i bambini poveri degli slums cittadini, pur mantenendo la sua ispirazione religiosa. Successivamente, specie negli Stati Uniti, si caratterizzò per il suo contenuto di «formazione permanente» rivolto alle fasce disagiate della popolazione.
3 La prima Charity Organisation Society (COS) degli Stati Uniti fu quella istituita a Buffalo (NY) nel 1877, otto anni dopo l’originale esperienza londinese che era stata assunta come modello (Bortoli, 1997).
4 Inizialmente, l’espressione era formata da due parole distinte. In seguito, Mary Richmond vi premetterà l’aggettivo social. È soltanto nelle elaborazioni degli anni Trenta che l’espressione diventerà definitivamente casework.
5 Zilpha D. Smith (1851-1926), «social worker», dopo alcuni anni di lavoro impiegatizio, nel 1879 divenne segretaria (registrar) delle Associated Charities di Boston, una sorta di consorzio degli organismi assistenziali cittadini. In questa veste si attivò per implementare e supervisionare le inchieste sui casi delle operatrici COS e la registrazione di tutti i casi assistiti, assicurare la cooperazione fra i diversi organismi e organizzare il sistema di friendlyvisiting. L’efficacia dei suoi metodi, che comprendevano anche iniziative formative per i dirigenti, gli operatori retribuiti e i friendly visitor, fece scuola fra le istituzioni similari.
6 Daniel Coit Gilman (1831-1908), uomo di cultura e filantropo; esercitò le sue competenze nell’amministrazione dell’istruzione pubblica e universitaria.
7 Amos G. Warner, nato nel 1861, dopo un dottorato in scienze economiche alla Johns Hopkins University divenne il responsabile amministrativo della COS di Baltimora e, nel 1891, superintendent (una sorta di coordinatore) dell’assistenza pubblica di Whashington. Insegnò «filantropologia» (il nome da lui attribuito all’assistenza erogata in modo «scientifico»), in diverse università americane; nel 1891 pubblicò American Charities, una ricerca molto completa sulle forme e i principi dell’assistenza di quegli anni. La morte, di tubercolosi, lo colse precocemente nel 1900.
8 Ossia benevolenza animata da uno spirito oggettivo, basato sui fatti e razionale. Sul finire dell’Ottocento, negli Stati Uniti, un gruppo di funzionari pubblici, studiosi di scienze sociali e ministri religiosi definivano con questa espressione l’obiettivo da conseguire per innalzare le condizioni di vita delle persone più povere, senza danneggiare l’economia ed evitando, nel contempo, che la beneficenza continuasse ad essere merce di scambio elettorale (Leiby, 1978, p.75 e ss.)
9 Di solito nelle Charity Organization Society statunitensi competevano agli uomini, di norma professionisti affermati, le funzioni direttive e la gestione finanziaria, mentre alle donne, sposate o vedove di buona famiglia, l’attività di friendly visiting.
10 Nella sua comunicazione The Need of a Training School in Applied Philanthropy affermò: «non potremo mai acquisire uno standard professionale fino a quando non avremo una scuola» (cit. in Leiby, 1978, p. 122).
11 Sorta come scuola estiva, di quattro settimane, la New York School of Philanthropy nel 1904 offriva già un corso annuale: Nel 1917 muta il suo nome in New York School of Social Work e in seguito, affiliatasi all’Università, diventa la Columbia University School of Social Work. Assieme alla Scuola di Chicago (sorta nel 1904) è unanimemente considerata la più importante scuola di Social Work degli Stati Uniti.
12 Era lo slogan introdotto da Thomas Chalmers (1780-1847), scozzese, filosofo e riformatore religioso che nella sua attività pastorale a Glasgow aveva rifiutato l’intervento assistenziale pubblico della Poor Law sostituendolo integralmente con l’azione volontaria. Lo slogan era poi passato, assieme all’eredità di tecnologia assistenziale, alle COS britanniche e statunitensi.
13 Fu la Richmond ad introdurre nel case work il termine cliente, per suggerire l’idea che il visitatore avesse una responsabilità rilevante quanto quella di un avvocato. Inoltre lo preferiva al termine «caso», troppo collegato alla medicina e spesso sinonimo di una malattia piuttosto che di una persona sofferente (Bouquet, 2002 p. xxi).
14 Isaac M. Rubinow (1875-1936), medico ed economista, importante studioso e propugnatore dei sistemi di sicurezza sociale (cit. in Chambers, 1963, p. 98).
15 È anche il suo unico viaggio in Europa. Infatti, pur risultando prevista tra i partecipanti alla Conferenza di Parigi del luglio 1928, le cattive condizioni di salute che la porteranno alla morte nel settembre successivo le impediranno di partecipare a questa importante manifestazione, dove invece presenzieranno con impareggiabili relazioni altri testimoni dell’avvio del Social Work negli USA come Breckinridge, Kellogg, Cabot
16 Russell Sage era un ricco finanziere, con una fortuna accumulata attraverso speculazioni bancarie e commerciali. Quando morì, nel 1906, il patrimonio passò alla vedova Margaret che lo utilizzò a scopi filantropici. Una delle realizzazioni più importanti fu appunto la Russell Sage Foundation, il cui obiettivo principale era la ricerca dei modi per migliorare le condizioni di vita e di lavoro negli Stati Uniti. Nell’ambito della Fondazione venne creato un apposito Dipartimento per lo sviluppo della formazione e della ricerca nel Servizio Sociale.
17 Il tema dei sussidi alle vedove con figli piccoli (caldeggiato anche dalla Richmond), rappresentava un tema controverso che tagliava trasversalmente i diversi settori sociali. Si temeva un ritorno alla politica dei sussidi aborrita dalle COS, ma anche il rischio di un minore interesse a prevenire i rischi di infortunio sul lavoro. Ciononostante, negli anni Venti, più di quaranta stati americani avevano introdotto questa forma di intervento.
18 Edito fino al 1918
19 Mary Richmond afferma che è scorretto considerare questa espressione come limitata al campo sanitario; essa è utilizzata in altre discipline «come la zoologia e la botanica, ad esempio» per indicare «una definizione breve, precisa ed esclusivamente pertinente» (Richmond, 1965, p. 51).
20 Una delle «allieve» più famose di questi corsi è senza dubbio Gordon Hamilton, che negli anni Trenta e Quaranta sarà la principale esponente del case work psicosociale. Il suo famoso testo Principi e Metodi del Servizio Sociale verrà tradotto in tutte le lingue
21 È Chambers (1963, p. 98) che utilizza questo avverbio per segnalare l’ingiusto trattamento subito dalla Richmond.
22 Quest’opera verrà tradotta e pubblicata in lingua francese nel 1926, a cura di Rene Sand, sotto il titolo Les Méthodes Nouvelles d’Assistance
FONTE: La rivista del lavoro sociale, Vol. 4, n. 2, (set. 2004), p. 265-278