Maria Benini

 

Analisi Videointervista a cura di Alessandro Monari

 

Parla Maria Benini un’assistente sociale della Provincia di Trento. 

Maria apre l’intervista descrivendo il fermento sociale degli anni settanta e i conseguenti cambiamenti apportati all’intera società che acquisisce da allora un’attitudine maggiormente umanitaria e assistenziale. Il clima sociale presente durante quegli anni permette a Maria di avvicinarsi al mondo dell’assistenzialismo frequentando un gruppo scout in cui vive esperienze costruite sul rispetto della persona e dei propri bisogni. Il percorso di formazione per Maria prosegue nella scuola triennale di assistenza sociale che collabora con l’università di sociologia, per diventare poi un vero e proprio obiettivo lavorativo. L’epoca in cui ci immergono le parole sincere di Maria sottolinea la volontà crescente dell’individuo di avvicinarsi all’assistenza delle persone in difficoltà, conformandosi con l’ideologia nata dai cambiamenti legislativi e normativi che caratterizzano tutto il decennio sopraccitato. 

Il percorso professionale della Signora Benini è ricco di esperienze che toccano diversi ruoli fondamentali nell’assistenza sociale. Partendo dall’inizio della sua carriera nel 1974 all’ospedale psichiatrico di Pergine per poi passare alla collaborazione con il Villaggio del Fanciullo di Trento e all’assistenza a famiglie bisognose, Maria ci spiega come la sua carriera professionale sia iniziata nel modo più appropriato per avere un quadro generale chiaro della sua professione.

La vicinanza al minore e alla famiglia è stata, dice Maria, di fondamentale importanza per avvicinarsi all’assistenzialismo. Vivere situazioni di grave difficoltà porta la Signora Benini a confrontarsi spesso con minori privati del proprio spazio vitale e del diritto di crescere in un ambiente che permetta loro di farlo senza gravi mancanze. Gli aiuti economici ed il sostegno psicologico dato alle famiglie distrutte dalla disoccupazione e dalle dipendenze in cui il minore non aveva un punto di riferimento porta Maria a conoscere sempre di più il mondo dell’assistenza minorile e ad ottenere la possibilità di collaborare con la scuola. L’esperienza di condivisione e sostegno che l’intervistata vive all’interno dell’ambiente scolastico le fornisce la giusta motivazione per proseguire sulla strada dell’assistenza sociale. 

Le parole di Maria ci comunicano con estrema chiarezza la sensibilità e la delicatezza che hanno contraddistinto e contraddistinguono tuttora la sua professionalità. Intuiamo dalle sue gestualità quanto sia attenta ad avere un vero e proprio contatto con lo spettatore. Il suo essere coinvolgente permette un’elevata attenzione da parte di chi la ascolta e questa è una caratteristica fondamentale per il ruolo che ricopre. 

Lavorando con il comune di Trento, afferma Maria, notava che il servizio sociale si occupava di numerose problematiche che comprendevano la tossicodipendenza, la povertà, la disabilità e con queste anche l’assistenza domiciliare. Grazie alle parole di Maria comprendiamo l’importanza del servizio domiciliare sviluppatosi in quegli anni. La volontà dell’assistenza sociale comunale era quella di incentivare l’autonomia dell’assistito permettendogli di rimanere presso il proprio domicilio. Nel caso di anziani bisognosi o di minori in condizioni familiari critiche, il ruolo dell’assistente sociale consisteva nell’analisi del caso e nell’attenta valutazione di uno spostamento dal domicilio alla comunità o alle case di riposo, anche chiamate RSA. 

La Signora Maria grazie all’avvicinamento al mondo dell’assistenza domiciliare prende parte all’UVG, ovvero, l’Unità Valutativa Geriatrica. Un’équipe di valutazione per le situazioni critiche in campo assistenziale, dedicato soprattutto alle persone anziane che potevano essere spostate all’interno di strutture per la loro cura. 

L’incentivazione della permanenza presso la propria abitazione per gli anziani in difficoltà, ad esempio, portava ad un aumento dell’assistenza domiciliare che prevedeva una collaborazione attiva del sistema di assistenza sociale con il sistema sanitario (infermieri ecc…). 

Comprendiamo che questa collaborazione è di cruciale importanza per lo sviluppo del lavoro d’équipe e dei rapporti tra servizio sociale e servizio sanitario ospedaliero. Lo staff di infermieri e di medici con il contributo dell’assistenza sociale comunale permetteva di offrire un vero e proprio servizio alla persona direttamente al domicilio, senza gravare sulla situazione di salute fisica e mentale dell’assistito. 

Con la legge provinciale sulla tutela della salute emanata nel 2010 si codifica il rapporto tra enti di assistenza sociale ed enti sanitari. Grazie alla legge citata da Maria si riconosce l’importanza del rapporto di collaborazione nato tra enti autonomi che mettono al primo posto la persona, la sua sicurezza, la salute fisica e mentale. Notiamo che per la Signora Maria la legge del 2010, tanto quanto l’introduzione e lo sviluppo del servizio di assistenza domiciliare, sono stati punti di partenza per  un maggiore riconoscimento e integrazione del servizio sociale all’interno della società. 

La sua carriera professionale non finisce con il suo pensionamento nel 2011, bensì prosegue attraverso l’adesione a servizi di volontariato forniti dall’assistenza sociale trentina e alla partecipazione alla consulta della salute: organo fondamentale per le decisioni che possono avere applicazioni pratiche in ambito assistenziale all’interno della provincia di Trento. 

L’intervista prosegue con un commento di Maria riguardo all’evoluzione della sua professione e dunque in generale dell’assistenza sociale. L’emancipazione e lo sviluppo sul territorio della professione di assistenza sociale sono stati graduali e difficoltosi. Il servizio sociale, prima di ottenere un ordine nazionale e prima di essere definito all’interno di associazioni che tutelassero le  proprie decisioni e le azioni compiute nei confronti della società, era sottovalutato e considerato marginale. L’istituzione di un Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali e di associazioni come l’ANAS (Associazione Nazionale Assistenti Sociali), hanno fornito alla professione una dignità, un riconoscimento a livello istituzionale e maggiore rispetto per i valori della professione stessa. Queste nuove introduzioni hanno permesso agli assistenti sociali di sentirsi tutelati in quanto operatori per la sicurezza sociale incoraggiando alla diffusione della professione sul territorio. L’istituzione del codice deontologico, afferma Maria, è stato il passo più importante per l’affermazione della figura dell’assistente sociale all’interno della comunità. L’operatore segue da allora regole precise ed il suo lavoro si basa sui principi di giustizia ed equità sociale che guidano l’operato di ogni organizzazione di assistenza e di tutti i suoi componenti. 

La comprensione ed il rispetto per la dignità umana e l’unicità delle persone sono i capisaldi della attività di assistenza ed in quanto tali sono tutelati dal codice deontologico che a sua volta protegge il lavoro di ogni assistente.

Comprendiamo dal discorso di Maria che la figura dell’assistente sociale ha affrontato molti cambiamenti seguendo la dinamicità della società in continua evoluzione, risentendo delle difficoltà e della poca comprensione; ma solo grazie a questo oggi può essere riconosciuta l’importanza del suo ruolo all’interno della società. 

E poi ci sono dei principi assolutamente fondamentali, quale l’autodeterminazione della persona, quindi il non sostituirsi alla persona, ma accompagnarla nel percorso, capire in sé e con le risorse che ci sono quale è la risposta ai suoi bisogni. Credo che questo sia fondamentale e non deve essere assistenzialismo bensì la persona deve riacquisire la sua autonomia, deve sentirsi consapevole dei diritti che ha e  dei doveri ovviamente diventando partecipe nella realtà sociale’ afferma la Signora Benini.

 

Il discorso si incentra poi su alcuni consigli che Maria sente di poter dare all’attuale e futuro servizio sociale. L’intervistata sottolinea più volte l’importanza del ruolo dell’assistente come accompagnatore della persona in difficoltà. Le sue parole scatenano una riflessione riguardo all’ascolto e alla vicinanza morale e fisica che deve essere fornita all’assistito. 

Il rapporto con l’individuo in difficoltà è fondamentale per la sua stabilità e per fornire un aiuto finalizzato al reinserimento della persona nella società. L’assistente sociale deve essere un amico fraterno, un interlocutore aperto ad ogni evenienza, un punto di riferimento per l’individuo che assiste. Il ruolo dell’assistente sociale è quello di accompagnare la persona durante un percorso umano, durante un lungo cammino il cui traguardo è il raggiungimento di una vita degna. L’operatore sociale deve, dice Maria, essere sensibile ma pragmatico durante le sue valutazioni; dunque deve saper coadiuvare le abilità professionali con le caratteristiche umane e la giusta delicatezza che lo caratterizza.

…Deve essere una lettura dei bisogni espressi e dei bisogni non espressi. Si cerca di capire i bisogni latenti, le necessità latenti per fare una valutazione attenta e a questo devi dedicare la formazione di te stesso e ascolto per gli altri.’ dice Maria.

 

La digressione della Signora Benini ci porta a comprendere che la funzione del servizio sociale è racchiusa dentro ad una sola parola: Persona. L’assistenza deve essere a totale servizio della persona, delle sue necessità e delle sue difficoltà. Al centro di tutto il lavoro dell’assistenza sociale c’è la persona che si assiste e le attenzioni vanno concentrate su di essa per ottenere i risultati migliori e soddisfare i requisiti di un percorso di rinascita lungo e difficile.

Un ambito importante dell’assistenza sociale è quello minorile. 

Durante l’intervista comprendiamo che la Signora Benini ha spesso avuto che fare con situazioni di difficoltà che riguardavano i minori e le famiglie dalle quali erano circondati. Le sue parole sono esemplificative della difficoltà e della sofferenza che i casi riguardanti bambini e ragazzi possono trasmettere anche all’operatore sociale stesso. Le famiglie in difficoltà si riferiscono spesso direttamente all’assistenza sociale per trovare la soluzione ad un problema evidente nella personalità del figlio o per cercare un aiuto di tipo gestionale per l’intera famiglia. 

L’assistente sociale occupandosi del minore in pericolo deve creare un rapporto di fiducia che unisce l’operatore, il minore ed il genitore che in molti casi è chiuso in comunità o addirittura in carcere. L’assistente deve assicurarsi di creare e mantenere il dialogo con i minori di cui si prende carico e con il genitore a cui si presuppone di poter affidare nuovamente il bambino. La spiegazione del trattamento dei minori fa emergere le grandi difficoltà che un assistente sociale deve affrontare durante il suo percorso lavorativo. Far prendere coscienza alla famiglia di un problema che affligge il minore o al contrario spiegare al bambino che le condizioni del genitore impediscono la loro convivenza sono sicuramente sfide difficoltose che un assistente sociale minorile deve saper affrontare per svolgere perfettamente il suo lavoro.  

La creazione di centri come il Villaggio del Fanciullo, in sostituzione ai comprensori e agli istituti, ha permesso un’agevolazione e una maggiore diffusione del ruolo dell’assistente sociale nell’ambito dei minori. Maria racconta che i luoghi come il villaggio sono sempre stati centri in cui si creavano realtà adattive alla crescita del bambino grazie alla professionalità, alla disponibilità e alla devozione di operatori sociali, di suore e di assistenti come lei che collaboravano per consentire una vita ‘normale’ ai minori. Insieme all’istituzione di questi centri è stata allargata l’assistenza domiciliare anche per i minori, che potevano essere seguiti direttamente nell’ambiente quotidiano e familiare stimolando il lavoro con la famiglia nella sua integrità. 

Era un gran lavoro di squadra.’ ci comunica Maria.

 

Era opportuno comunicare alla famiglia quale fosse il problema centrale su cui si doveva lavorare per evitare che ci fossero dei fraintendimenti nei rapporti a causa dell’incapacità del genitore nell’avvertire le esigenze del bambino e viceversa del bambino nel comprendere la motivazione della separazione dai genitori. 

In conclusione il racconto e le emozioni che ci comunica la Signora Maria attraverso le espressioni del suo viso, ci possono fare riflettere su quanto e come le situazioni difficili di cui si è dovuta occupare abbiano cambiato il modo in cui guarda la società passata, presente e con cui immagina quella futura.

I cambiamenti affrontati dal servizio sociale e conseguentemente da lei stessa hanno preso parte ad un’avventura che oggi può chiamare vita. La sua vita dedicata all’assistenza sociale, all’aiuto reciproco e alla diffusione della sicurezza in una società che necessita sempre più di certezze la rendono fiera della sua fedeltà all’ordine degli assistenti sociali e al suo ruolo che promuoverà sempre con felicità e devozione. 


Maria Benini: Testimonianza in “Attenzione alla fragilità” a cura di Monica Ronchini

Iniziai a lavorare come assistente sociale nel 1974, in un periodo di grandi trasformazioni sociali, di aperture al rispetto verso la persona, di riconoscimento dell’importanza delle relazioni e della presa in carico dei soggetti più deboli con un atteggiamento non giudicante.

La mia prima esperienza lavorativa fu nel servizio sociale psichiatrico presso l’ospedale di Pergine, nella fase di chiusura dei manicomi e verso un’assistenza territoriale. Nel 1976 cominciai a occuparmi di minori e famiglie nelle zone periferiche di Trento (Rotaliana-Paganella, valle di Cembra e valle dei Laghi).

Il mio contatto con APPM iniziò con il ‹gruppo storico› di Melta di Gardolo: Nicoletta, Sandro, Tino e Piergiorgio. In quel periodo mi occupavo di famiglie in difficoltà e di minori che a casa non erano seguiti adeguatamente, alcuni dei quali ci erano stati assegnati tramite provvedimento del Tribunale per i minorenni; c’era un notevole rapporto con le scuole, un lavoro di mediazione con i ragazzi e di accettazione dell’intervento da parte delle famiglie. Era infatti complesso ottenere dai genitori il consenso di lasciare, anche se temporaneamente, il figlio a una comunità e rassicurare la scuola intorno alla reale problematicità dei ragazzi.

I rapporti all’interno dell’Associazione erano ottimi e con alcuni colleghi nacquero legami di amicizia: condividevamo le situazioni, ci si accordava sulla suddivisione dei ruoli e sui rapporti da tenere con i minori, con le famiglie e con la scuola. Ho lavorato soprattutto con il gruppo residenziale di Melta. 

La comunità residenziale fu una rivoluzione: la maggior parte dei minori seguiti dagli assistenti sociali erano stati precedentemente accolti dagli istituti di Borgo Valsugana, Riva del Garda e Levico e il passaggio dei minori a queste comunità più piccole era importante, anche se inizialmente il vero problema erano i posti liberi, poiché in genere la domanda era superiore alla disponibilità e la permanenza di lunga durata. Penso ad esempio all’Istituto Croce Rossa di Levico dove erano accolte bambine molto piccole mentre i maschi erano collocati all’istituto Padre Monti di Arco. A volte fratelli, se maschi e femmine, erano divisi e collocati in istituti distanti tra loro. Frequentemente la domanda era superiore alla disponibilità anche perché, purtroppo, la permanenza in Istituto era di lunga durata.

Le ragioni delle difficoltà familiari che risultavano nell’affidamento dei figli agli istituti non erano solamente di carattere economico, ma si dispiegavano in complesse situazioni di disagio. Per i casi in cui la povertà costituiva il problema principale, subentravano gli aiuti provinciali secondo il ‹criterio del minimo vitale›. In APPM ho sempre cercato di inserire minori che necessitavano di una presa in carico più individualizzata. Non posso dire che negli istituti mancassero figure educative qualificate, ma il problema riguardava il numero di questi professionisti: negli istituti un educatore doveva seguire simultaneamente venti o più bambini; mentre nei gruppi famiglia il numero limitato di bambini favoriva la creazione di relazioni più efficaci. Dal mio punto di vista negli anni in cui mi sono occupata di minori e famiglie si è lavorato in sintonia con i vari servizi, la scuola, il Servizio Psichiatrico e il Tribunale minorenni. Scopo comune era dare una positiva evoluzione alle complesse situazioni familiari. Una significativa parte delle segnalazioni veniva dalla scuola ed in alcuni casi erano le famiglie che si rendevano conto di non riuscire a gestire i figli. Nella scuola si segnalavano molto i ragazzi che disturbavano il resto della classe, ma c’erano anche insegnanti capaci di cogliere i segnali di disagio e perciò veniva chiesto un intervento per risolverli. Quando si evidenziavano relazioni positive, non giudicanti, si poteva costruire molto. La creazione di un’alleanza con la famiglia era importantissima. Ho collaborato molto anche con il CMS infantile confrontandomi con psicologi e neuropsichiatri infantili.

Ad ogni modo si cercava di limitare il più possibile l’istituzionalizzazione e di collaborare sempre con gli educatori di APPM, che avevano una notevole capacità di attenzione. Nel corso della mia carriera ho sempre ricevuto giovamento dal confronto con i colleghi di tutta la Provincia, con conseguente formazione e arricchimento culturale reciproco. 

Le caratteristiche dell’intervento di APPM erano la concentrazione sul gruppo, più limitato che negli istituti; quando poi il gruppo fra educatori era coeso si creavano relazioni molto positive tra i ragazzi. Pur sbilanciato perché la condizione della famiglia era migliore di quella di un gruppo pur stimolante, l’efficacia era comunque maggiore di quella degli istituti, dove il rapporto era di un educatore ogni almeno venti ragazzi. 

Ricordo che c’era una specie di stile di APPM: era un gruppo su cui si sapeva di poter contare, c’era un filo di unione. Anche nelle famiglie c’era la consapevolezza di avere a che fare con un gruppo e gli educatori ci tenevano a garantire continuità dei rapporti con le famiglie dei minori. Magari inizialmente le famiglie non credevano che vi fosse la volontà di far tornare i ragazzi a casa e si lamentavano, ma comunque capivano che gli educatori erano un gruppo forte, coeso e di professionisti.

Nei quindici anni di collaborazione con APPM una caratteristica importante che ho ritrovato nell’Associazione sia stata il progressivo differenziarsi dell’offerta; in generale è stato molto importante il lavoro ‹creativo› al suo interno. Ho sempre visto in modo molto positivo il cambiamento e il lavoro fatto da APPM, caratterizzato dall’amore per i minori e dalla professionalità che la distingueva. I risultati si vedono con i successi raggiunti dai ragazzi, in termini scolastici e professionali. Facevano cose splendide come il riuscire a far accettare ai genitori la condizione di delega temporanea alla associazione.

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