Lo sguardo profetico di un «archeologo delle idee» di -Bruno Bortoli – Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Ivan Illich (Vienna, 4 settembre 1926 Brema, 2 dicembre 2002)
Attribuisco un grande valore agli scritti di Illich proprio per il fatto che essi rappresentano il radicalismo umanistico nel suo aspetto più pieno e ingegnoso. L’autore è un uomo di raro coraggio, di grande vitalità, di straordinaria erudizione e genialità nonché di fertile inventiva. Il suo pensiero complessivo si basa sull’interesse per lo sviluppo dell’uomo dal punto di vista fisico, spirituale e intellettivo. L’importanza delle sue riflessioni, in questo come negli altri suoi scritti, risiede nel fatto che essi hanno un effetto liberante sulla mente mostrandole tutte le nuove possibilità; rendono il lettore più vivo perché aprono la porta che fa uscire dalla prigione delle nozioni routinarie, sterili e preconcette. Attraverso lo shock creativo che comunicano stimolano energia e speranza nel futuro, tranne che in coloro che reagiscono solo con la paura e il nonsenso. (Fromm, 1971, p. 11)
Queste parole di Erich Fromm, che concludono l’introduzione al primo saggio importante di Ivan Illich, Celebration on Awareness (1971), presentano un autore che proprio da quel saggio comincerà ad acquisire un’ampia notorietà, destinata ad aumentare l’anno successivo, quando verrà pubblicato Descolarizzare la società (Deschooling society, 1972). Una notorietà improvvisa, grande ma anche molto passeggera, tanto è vero che un filosofo francese, scrivendo nel 2003, poco dopo la morte di Illich, esordirà dicendo che «da allora in poi» Illich era effettivamente morto (Paquot, 2003, p. 28), a sottolineare il fatto che, tranne per una cerchia pur consistente di studiosi e operatori, l’attualità del suo nome era scomparsa da decenni, così da ingenerare l’impressione che egli fosse morto da tempo.
La meritata notorietà di Illich era dovuta al suo stile brillante e polemico, con il quale aveva riflettuto sulle principali istituzioni del mondo industrializzato. Dopo aver esplorato il funzionamento e l’impatto del mondo dell’istruzione, si era occupato dello sviluppo della tecnologia (Tools for conviviality, 1973), delle fonti energetiche, dei trasporti e dello sviluppo economico (Energy and equity, 1974), della medicina (Medicai nemesis, 1975), del lavoro (The right to useful unemployment and its professional enemies, 1978, e Shadow Work, 1981), sezionando le istituzioni per dimostrare la loro corruzione, la loro tendenza a trasformarsi in qualcosa che contraddice i loro obiettivi originari. Più avanti, si era inoltrato nell’esame degli aspetti di genere (Gender, 1982), dell’alfabetizzazione e della sofferenza. Il suo lavoro è sempre stato al centro di attacchi sia da «destra» che da «sinistra». Per quanto riguarda quest’ultima, ad esempio, la sua critica agli effetti disabilitanti di molte istituzioni del welfare state risultò profondamente problematica: è singolare il fatto che, celebrato nella Francia di quegli anni come maìtre-à-penser, Illich venne completamente dimenticato a partire dalla Presidenza Mitterrand, in quanto il suo messaggio suonava contrario al programma politico della gauche. Così, a partire dagli anni Ottanta, di fronte al grande pubblico la sua figura cadde un po’ alla volta nell’oblio, per quanto le sue «profezie» si avverassero, progressivamente, in maniera impressionante. Il suo nome e la sua riflessione hanno continuato invece ad alimentare piccoli gruppi di «resistenti» e alternativi alla globalizzazione neoliberale montante, in Canada, così come in Messico o in Germania.
Il fenomeno della «controproduttività», che Illich aveva individuato nelle istituzioni e nei processi spinti di avanzamento tecnologico, trovava a suo parere una risposta corretta nell’uso limitato e disciplinato della scienza, nonché nell’invenzione di tecnologie alternative a bassa intensità.
È sempre stato difficile inserire la figura di Illich in una categoria intellettuale precisa: teologo, filosofo, storico, sociologo: lui stesso faticava a definirsi in questo senso. Forse l’etichetta più esatta, che coglie l’insieme di tutta la sua opera, è quella di «archeologo delle idee»: qualcuno che aiuta a vedere il presente da una prospettiva più vera e più ricca.
Erudito e poliglotta, dominava agevolmente un’impressionante bibliografia, e scriveva correntemente in dieci lingue. Fin dall’infanzia conosceva il francese, il tedesco, l’italiano, il russo; a otto anni imparò il serbo-croato, la lingua dei suoi nonni; a scuola studiò il greco e il latino, a cui aggiunse in seguito l’inglese, lo spagnolo, il portoghese e l’hindi.
La tesi centrale delle sue riflessioni, in base alla quale le istituzioni e le tecnologie finiscono per tradire i propri obiettivi, influì notevolmente sui movimenti sociali alternativi; da quelli che si opponevano alla scolarizzazione obbligatoria, a quelli desiderosi di una riforma della Chiesa, a quelli contrari all’esasperata tecnologia, fino ai fautori dell’autocura sanitaria. Tuttavia, a paragone delle posizioni di tali movimenti, le sue analisi erano ancor più radicali. Affermava infatti che la scuola «libera» o l’autocura rischiavano di risultare sistemi solo nominalmente diversi dall’esistente, se l’educazione o la salute continuavano a venire considerate delle merci, utilizzate per soddisfare bisogni autoprodotti.
La formazione
Ivan Illich nacque a Vienna il 4 settembre 1926 da una famiglia molto benestante. Il padre, Ivan Peter, ingegnere civile, aveva anche delle proprietà in Dalmazia, da dove proveniva la sua famiglia di origine aristocratica; la madre Helene era figlia di un rabbino. Le origini materne comportarono l’espulsione della famiglia dall’Austria nel 1941. Con i due fratelli minori e la madre (il padre era morto prematuramente) Ivan si trasferì a Firenze dove completò gli studi superiori, iniziati a Vienna presso i Pianisti, al liceo Leonardo da Vinci e dove poi si iscrisse all’Università, inseguendo contemporaneamente una pluralità di interessi, dalla cristallografia alla storia dell’arte. In questo contesto maturò la scelta del sacerdozio: nel 1943 si trasferì a Roma per frequentare i corsi teologici all’Università Gregoriana, conseguendo la laurea con una tesi su Romano Guardini.
Il dottorato in storia medievale, che ottenne a Salisburgo nel 1950 con una tesi su Arnold Toynbee, è un dato significativo della sua biografia perché negli ultimi anni, imbarazzato nel definire la propria qualifica intellettuale, sostituì quella di filosofo con quella di storico, dato che ogni suo lavoro era basato su minuziose e innovative ricerche storiche.
Nel 1951 fu ordinato sacerdote. Il Vaticano pensava di destinarlo alla diplomazia ma Illich optò per l’attività pastorale chiedendo di essere assegnato alla diocesi di New York, dove fino al 1956 svolse funzioni di vicario nella Parrocchia dell’Incarnazione, frequentata soprattutto da immigrati portoricani. In questo periodo collaborò con Jacques Maritain (conosciuto a Roma durante gli studi di teologia), sostituendolo talvolta a Princeton nelle lezioni su S. Tommaso d’Aquino.
Nel 1956 — a trent’anni — fu nominato prorettore dell’Università Cattolica di Ponce a Portorico, ma quattro anni dopo lasciò l’incarico e l’isola per contrasti con il suo vescovo sul modello di chiesa proposto localmente. Ritornò a New York, dove gli era stata proposta una cattedra all’Università di Fordham, diretta dai gesuiti.
Cuernavaca e il rapporto con la Chiesa
Nel 1961, dopo un’esperienza durata diversi mesi nella quale aveva percorso a piedi e in autobus gran parte dell’America latina, la «sensibilità interculturale» che aveva sviluppato negli anni precedenti si sostanziò nell’istituzione del Centro Interculturale di Documentazione (CIDOC), a Cuernavaca, in Messico. Il Centro, su invito specifico del Papa, aveva lo scopo di formare sacerdoti e laici nordamericani che in seguito avrebbero dovuto svolgere la loro missione tra le popolazioni dell’America latina. Per quanto l’apprendimento dello spagnolo costituisse una parte importante delle attività, Illich insisteva sul fatto che il progetto fosse essenzialmente destinato a permettere di cogliere le rappresentazioni del mondo proprie delle persone che appartenevano a culture differenti da quelle consumiste della società industriale americana. Con il suo tono sferzante, qualche anno dopo dirà che erano due gli obiettivi del Centro:
Il primo era quello di diminuire i danni derivanti dall’ordine papale. Attraverso il nostro programma per i missionari intendevamo sfidarli a guardare in faccia la realtà e se stessi e quindi o rifiutare i propri pregiudizi o, perlomeno, essere meno impreparati. In secondo luogo, desideravamo acquisire sufficiente influenza sugli organismi decisionali delle organizzazioni che sponsorizzavano le missioni per dissuaderli dal mettere in pratica il progetto [del papa]. (Illich, 1971, pp. 47-48)
Sotto la guida di Illich il Centro si contraddistinse, a livello intemazionale, per gli studi sulla modernità e per l’attuazione dell’idea di un’istruzione descolarizzata. Il CIDOC divenne luogo di incontro per molti intellettuali dell’America del Nord e del Sud, dove con modalità laboratoriali si sviluppavano riflessioni sui temi sociali e politici. Il Centro disponeva di una biblioteca prestigiosa e Illich vi conduceva dei seminari dedicati alle alternative istituzionali nella società tecnologica. Fu sede di appassionati dibattiti tra Freire e Illich sull’istruzione, la scolarità, la coscientizzazione, così come di confronti con altri pedagogisti alla ricerca di strumenti educativi con cui trasformare ogni momento della vita in un’occasione di apprendimento, anche e soprattutto al di fuori del sistema scolastico.
La notorietà di Illich inizia in questo periodo e, in particolare, con la sua critica alla chiesa «istituzionale», definita come una grande impresa che forma e utilizza professionisti della fede per assicurare la propria sopravvivenza. È a questi contenuti che si ispira il suo saggio The Church, change and development (1970).
Queste posizioni non potevano passare inosservate. Nel 1968 mons. Illich (nonostante la sua giovane età era stato già insignito, da tempo, di un titolo prelatizio) fu chiamato a Roma a discolparsi di fronte al Santo Uffizio; venne prosciolto dalle accuse ma la Chiesa delegittimò il suo Centro, togliendogli i finanziamenti e vietando ai sacerdoti di frequentarlo.
In seguito a ciò nel marzo 1969, con una lettera aperta al «New York Times», Illich rinunciò unilateralmente ai titoli, benefici e servizi ecclesiastici. Tuttavia — contrariamente a quanto spesso si afferma — non fu mai sospeso a divinis né chiese mai la riduzione allo stato laicale: rimase fino alla fine nell’elenco dei sacerdoti incardinati nella diocesi di New York e, pur non celebrando la Messa, conservò per tutta la vita l’impegno alla preghiera quotidiana del Breviario. A un suo amico italiano confidò di credere di essere uno dei pochissimi preti di sua conoscenza, se non l’unico, rimasto fedele al giuramento antimodernista, lui che pure affermava categoricamente l’incoerenza tra tale giuramento e il Vangelo (Pucci, 2002). Non abbandonò mai l’austera disciplina personale a cui era stato formato, che accompagnò tutto il suo lavoro così come i suoi atteggiamenti di fronte alla vita e alla morte.
Descolarizzare la società
La seconda pubblicazione importante è del 1970: Celebration of Awareness, un testo contro le certezze delle istituzioni che imprigionano la creatività e rendono insensibile il cuore.
La sua riflessione lo porta poi a elaborare, nel 1971, il suo saggio sicuramente più famoso, Deschooling society (Descolarizzare la società). Il testo, con la tesi che la scuola produce la paralisi dell’apprendimento e danneggia i ragazzi, educandoli a diventare meri funzionari della macchina sociale moderna, fu al centro del dibattito pedagogico internazionale. Convinto che il sistema educativo occidentale fosse al collasso sotto il peso della burocrazia, dei dati e del culto del professionalismo, Illich combatte i diplomi, i certificati, le lauree, insieme all’istituzionalizzazione dell’imparare. Afferma che un adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di 12 anni di scuola in uno o due anni.
Descolarizzare la società è prima di tutto un appello alla destabilizzazione non solo — o non tanto — della scuola, quanto di tutte quelle istituzioni che riteniamo siano «buone» solo perché siamo stati indotti — falsamente — a credere che rivestono un ruolo necessario e perseguono effettivamente l’obiettivo originario che attribuiamo loro. Secondo Illich, l’errore è quello di aver abdicato la nostra responsabilità personale di pensare e di agire per le nostre vite a vantaggio degli «esperti» che lavorano in queste istituzioni. L’errore degli esperti è quello di non considerare le conseguenze inattese, gli elementi della natura umana che rendono vana qualsiasi pianificazione accuratamente studiata, qualsiasi intervento sistematico, specie quelli meglio intenzionati.
Illich in seguito avrebbe aggiunto che non possiamo e non dobbiamo tentare di pianificare, programmare e controllare la vita; al contrario dovremmo basarci sulle sorprese che la vita reca con sé e prepararci ad esse. Si tratta quindi di una critica delle istituzioni e dei professionisti, nonché del modo con il quale essi contribuiscono alla disumanizzazione: le istituzioni creano i bisogni e ne controllano la soddisfazione. Così facendo, spingono l’essere umano e la sua creatività verso gli oggetti.
Descolarizzare la società si presenta come un esame critico sull’istruzione così come praticata nelle società contemporanee. Ricco di dettagli sui diversi sistemi formativi, contiene molti esempi sulla inefficacia della scuola. Le affermazioni e le proposte al centro del saggio suonano, oggigiorno, altrettanto radicali di quanto lo erano all’epoca della pubblicazione. L’istruzione di tutti attraverso la frequenza scolastica non è realizzabile, nemmeno tentando forme organizzative differenti, o chiedendo agli insegnanti di cambiare i loro metodi, o escogitando «nuovi espedienti per far imparare alla gente ciò che secondo gli esperti essa ha bisogno di sapere» (Illich, 1981 a, p. 105). La struttura della scuola, come tale, esercita un effetto invariante che Illich chiama «programma occulto» il quale trasforma l’apprendimento da attività in merce. L’ «istruzione» diventa un prodotto quantificabile e cumulativo, il cui valore può essere misurato in base alla durata e al costo dell’applicazione al singolo studente.
[Solo] se si recupera il senso della responsabilità personale di ciò che si impara o si insegna, diventa possibile spezzare questo incantesimo e colmare il distacco tra l’istruzione e la vita. Recuperare il potere di imparare o di insegnare significa che il docente il quale si azzarda a intromettersi negli affari privati di un’altra persona si assume anche la responsabilità dei risultati. Parimenti, lo studente che si espone all’influenza di un insegnante deve assumersi la responsabilità della propria istruzione. (Illich, 1981a, p. 127)
In questo quadro, secondo Illich, se proprio vogliamo una struttura scolastica, dovremmo configurarla come un centro di servizi, in cui si ha accesso a un pianoforte o a dei libri. La ricerca di nuovi «imbuti» educativi va sostituita dalla ricerca di «reti educative» che innalzano l’opportunità di ciascuno di trasformare ogni momento della sua vita in un momento di apprendimento, di condivisione e di interesse degli uni verso gli altri.
La tesi anti-istituzionale di Illich, che appare con questo testo e che verrà esemplificata anche nelle analisi delle altre istituzioni, presenta quattro aspetti principali.
Una critica al processo di istituzionalizzazione. La società moderna sembra creare sempre ulteriori istituzioni e spaccati sempre più ampi della nostra esistenza finiscono sotto il loro dominio. Un tale processo indebolisce le persone, diminuisce la loro fiducia in se stesse e nelle loro capacità di risolvere i problemi, annienta le relazioni conviviali e colonizza la vita, come un parassita o un cancro che uccide la creatività.
Una critica degli «esperti» e delle specializzazioni. Gli esperti e la cultura esperta richiedono la presenza di sempre più esperti. Essi hanno la tendenza a creare cartelli, costruendo «barricate istituzionali», proclamando, ad esempio, il loro ruolo di controllo per l’accesso alla professione. Gli esperti controllano la produzione della conoscenza: decidono quali siano le conoscenze validate e legittime e in che modo vadano acquisite.
Una critica alla mercificazione. I professionisti e le istituzioni nelle quali essi operano tendono a definire un’attività, nel caso della scuola l’apprendimento, come un bene («l’istruzione») di cui viene monopolizzata la produzione, viene limitata la distribuzione e il cui prezzo è superiore alle disponibilità finanziarie della gente normale e, un po’ alla volta, anche di tutti i governi.
Il principio della contro produttività. La contro produttività è il fenomeno per cui una procedura fondamentalmente benefica si trasforma in senso negativo. Una volta raggiunta una determinata soglia, il processo di istituzionalizzazione evidenzia caratteristiche di contro produttività.
L’uomo a servizio degli strumenti?
Due anni dopo, nel 1973, appare Tools for Conviviality (nell’edizione italiana: La Convivialità) nel quale Illich universalizza le tematiche in precedenza applicate al campo dell’istruzione: l’istituzionalizzazione delle conoscenze specialistiche, il ruolo dominate delle élites democratiche nella società industriale e il bisogno di sviluppare nuovi strumenti perché il cittadino medio possa riappropriarsi delle conoscenze necessarie alla vita.
Scrivendo questo saggio, Illich ha presente il grado di pervasività che la tecnologia e l’organizzazione industriale hanno raggiunto nelle nostre società: anche i cittadini più consapevoli dei rapporti di sfruttamento e di dominio legati all’industrializzazione si rassegnano al proprio destino, pena il ritorno a una situazione ancora più faticosa e meno confortevole. Tuttavia, […] c’è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere [e] l’uomo diviene l’accessorio della mega macchina, un ingranaggio della burocrazia; [c’è anche, tuttavia] un secondo modo di mettere a frutto l’invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio d’iniziativa e di produttività agli altri. (Illich,1993a, p. 12)
Gli strumenti della modernità hanno l’obiettivo di «liberare» l’uomo dalle schiavitù, dell’ignoranza, della miseria, della malattia, ma se manca la consapevolezza che l’equilibrio della vita, fragile e complesso, non oltrepassa certe soglie, si finisce per divenire servitori degli strumenti, in modo tale che «oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione». Ma, riuscendo a individuare dove si trova il limite critico per ogni componente dell’equilibrio globale, si potrà articolare in modo nuovo «la millenaria triade dell’uomo, dello strumento e della società». Questo modo nuovo Illich lo chiama «società conviviale»: una società nella quale […] lo strumento moderno [è] utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni. (Illich, 1993a, p. 13)
Energia ed equità esce in una prima versione su «Le Monde», all’inizio del 1973, l’anno della crisi energetica. Illich contestava questa espressione perché la scarsità di energia, a suo avviso, è legata alla cultura e a determinati stili di vita. Con maggiore evidenza di altri, questo saggio è denso di parole profetiche: sottolinea, ad esempio, l’accentuazione del controllo sociale comportato dalla gestione rigida di combustibili rari e distruttivi; tratteggia un’evoluzione del sistema dei trasporti in cui elevate quantità di energia degradano le relazioni umane con la stessa ineluttabilità con cui inquinano la natura.
La diffusa convinzione che un’energia pulita e abbondante sarebbe la panacea di tutti i mali sociali è dovuta a un inganno politico, secondo cui l’equità e il consumo d’energia possono stare in correlazione all’infinito. [Anche se così fosse] l’impiego di energia su scala di massa agisce sulla società al pari di una droga, fisicamente innocua ma assoggettante per la psiche. Una collettività può scegliere tra il metadone a vita e la disintossicazione, tra il restare dipendente da un’energia estranea e il liberarsene con spasmi dolorosi. Ma nessuna società può essere composta di persone schiave dell’energia che siano allo stesso tempo individui autonomamente attivi. (Illich 1981a, p. 167)
Nemesi medica: la contro produttività delle strutture sanitarie
Nemesi medica, altro libro che destò grande scalpore, è del 1975. In esso Illich esamina i danni alla salute prodotti dalla crescita dell’organizzazione sanitaria, uno degli aspetti nocivi dello sviluppo industriale. Man mano che l’offerta di sanità aumenta, la gente risponde adducendo più problemi, bisogni, malesseri. Il sistema medico della società moderna crea danni alla salute con terapie spesso disabilitanti, ma non solo: la medicalizzazione della vita sostituisce i provvedimenti politici con cui si potrebbe migliorare la salubrità dell’ambiente. Nei Paesi sviluppati, la lotta contro la morte è divenuta essa stessa un fattore patogeno. Il mito della salute moderna trasforma l’individuo in un impersonale sistema immunitario, su cui la medicina deve intervenire per eliminare dal quadro corporeo la malattia e la sofferenza: è il rifiuto dell’anomalo, della vecchiaia e della morte. Ma si dimentica che questo disgusto dell’arte di soffrire è la negazione stessa della condizione umana.
Illich non è contro le cure sanitarie, così come non è contro l’istruzione in quanto tale; ma una volta oltrepassata una certa soglia di istituzionalizzazione, la scuola rende le persone più stupide e gli ospedali diventano patogeni. In generale, infatti, oltre una certa soglia di specializzazione istituzionalizzata, gli esperti diventano controproduttivi: producono un effetto contrario a quello che sono chiamati a perseguire. In una riflessione di qualche anno posteriore (Illich, 1999), Illich dirà che scrivendo Nemesi medica non aveva preso la medicina come tema, ma come esempio. Con questo libro voleva proseguire un discorso già avviato sulle istituzioni moderne in quanto creatrici di miti, di liturgie sociali che celebrano certezze illusorie. Così, dopo aver esaminato la scuola, i trasporti e l’alloggio per comprendere le loro funzioni manifeste e le loro funzioni latenti, aveva scelto la medicina come esempio per illustrare la controproduttività caratteristica di tutte le istituzioni del dopoguerra e il loro paradosso tecnico, sociale e culturale: sul piano tecnico la sinergia terapeutica produce nuove malattie; sul piano sociale lo sradicamento provocato dalla diagnostica assilla l’ammalato, il vecchio e persino chi sta morendo; sul piano culturale, la promessa del progresso porta al rifiuto della condizione umana e ad aborrire l’arte di soffrire.
Le prime parole di Nemesi medica sono divenute famose: «Le strutture sanitarie sono divenute la principale minaccia alla salute». Illich era consapevole che tale affermazione portava a dubitare addirittura della sua salute mentale. Tuttavia, la scelse di proposito per il suo enorme potere di provocare stupore e rabbia. Venticinque anni dopo, l’incipit sarebbe stato diverso: «La ricerca della salute è divenuta il fattore patogeno predominante». Il paradosso diventa evidente, secondo Illich, quando si esaminano le risposte della gente alla domanda: «Come va?». Maggiore è l’offerta di sanità e più numerose sono le persone che rispondono di avere problemi, bisogni, malattie e che chiedono di essere garantite contro i rischi. E, ancora, più l’offerta sanitaria viene presa in carico dall’amministrazione pubblica, più intensamente viene percepita la mancanza di salute. In altre parole, «l’angoscia misura il livello di modernizzazione e ancor più quello di democratizzazione» (Illich, 1999, p. 28).
La critica verso gli esperti e la professionalizzazione viene allargata anche al di là dell’ambito sanitario nel saggio di apertura di Disabling Professione un testo a più voci, che condividono tuttavia lo stesso punto di vista su alcuni aspetti del mondo del welfare, pubblicato nel 1977 quasi a corollario, per l’ambito sociale, di quanto espresso due anni prima.1
La modernizzazione della miseria
Per una storia dei bisogni (Toward a history ofneeds, 1978b) è una raccolta di cinque saggi che descrivono come la crescita industriale produca una versione moderna della povertà: la modernizzazione della miseria consiste nell’impotenza del cittadino ad agire autonomamente, a causa della sua crescente dipendenza da merci e servizi industriali, la cui necessità è imposta da una casta di esperti. Esaminando diversi settori della crescita economica, Illich illustra una regola generale: «I valori d’uso vengono ineluttabilmente distrutti quando il modo di produzione industriale raggiunge quel predominio [chiamato] “monopolio radicale”» (Illich, 1981a, p. 7). Il monopolio radicale «non [è] il dominio di una marca, ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto» (Illich, 1993a, p. 74).
Gli uomini possiedono la capacità innata di curare, confortare, spostarsi, apprendere, costruirsi una casa e seppellire i propri morti. Ognuna di queste capacità risponde a un bisogno. I mezzi per soddisfare questi bisogni non mancano, fin tanto che gli uomini dipendono da ciò che possono fare da sé e per sé, ricorrendo solo marginalmente a professionisti. Tali attività hanno un valore d’uso, ma non necessariamente hanno assunto valore di scambio: il loro esercizio, spesso, non si definisce culturalmente come lavoro.
Queste soddisfazioni elementari si rarefanno quando l’ambiente sociale viene trasformato in modo tale che i bisogni più semplici non possono più trovare risposta fuori commercio. Così si stabilisce un monopolio radicale: gli uomini abbandonano la loro capacità innata di fare quel che possono per sé e per gli altri, in cambio di qualcosa di «meglio» che solo uno strumento dominante può procurargli. Il monopolio radicale comporta l’industrializzazione dei valori. Alla risposta personale sostituisce l’oggetto standardizzato; crea nuove forme di scarsità attraverso l’accettazione di un nuovo criterio di misura (e quindi di classificazione) del livello di consumo della gente. Questa riclassificazione provoca l’aumento del costo unitario di fornitura del servizio, svaluta la prestazione non professionale, modula l’attribuzione dei privilegi, restringe l’accesso alle risorse, rende ostile l’ambiente all’iniziativa autonoma e mette la gente in stato di dipendenza forzosa. (Ibidem)
Rapporti di genere
Il genere e il sesso (Gender, 1982) esamina come la ricchezza derivante dalla specificità degli ambiti maschile e femminile, associata nel passato «a una cultura duale, locale e materiale» (p. 18) che influenzava gli uomini e le donne, sia stata sacrificata all’idea di un lavoro neutro, creato dal capitalismo e dipendente dal semplice accoppiamento del maschio lavoratore salariato e della donna madre che produce nuovi lavoratori. Illich sostiene il carattere intrinsecamente sessista dell’economia e l’inutilità di perseguire, in questo contesto, la ricerca della parità uomo-donna.
Il libro destò alla sua uscita il malumore dei movimenti femministi ma, spesso, il giudizio era frutto di una lettura frettolosa.
Il saggio, su modello dei testi antichi, era strutturato su due registri, il primo contenente la «summa» dell’autore, il secondo le quaestiones disputatae, cioè 122 ricche note «per quanti [avessero voluto] utilizzare il testo come guida a uno studio indipendente» (p. 9). L’intento è spiegare come lo sviluppo economico comporti la distruzione del «genere vernacolare»2 e prosperi sullo sfruttamento del «sesso economico».
Lavoro ombra (Shadow Work, 1981) sviluppa ancora il tema di come la scarsità si formi attraverso la distruzione delle comunanze, sulle quali — nella loro forma di attività domestiche femminili — si fonda il lavoro salariato, trasformandole nella propria ombra sfruttata.
Per lavoro ombra intendo il moderno complemento non retribuito del lavoro salariale. Si tratta di qualcosa che un tempo semplicemente non esisteva. […] Comprende gran parte dei lavori domestici svolti dalle donne nelle proprie case, il fare la spesa, portare i figli a scuola, attendere con loro nell’ambulatorio medico, vigilarli sul campo giochi, sgobbare con loro per gli esami, ma anche l’andare e venire del padre dal posto di lavoro, lo stress del consumo forzato, la resa, ormai introiettata, a pedagoghi e terapeuti, l’acquiescenza ai burocrati e non da ultimo le attese ai semafori. In una parola, gran parte di ciò che viene etichettato come vita privata o vita in famiglia. (Illich, 1985a, pp. 109-110)
Il lavoro ombra non serve per la sussistenza della famiglia. Serve a trasformare, senza retribuzione, merci preconfezionate in beni di consumo.
Dall’acqua al Medioevo
Nell’opera H2O e le acque dell’oblio ( H2O and the Waters of Forgetfulness, 1985), si dimostra storicamente come l’acqua, da sostanza inesauribile che alimentava non solo il corpo, ma anche lo spirito e l’immaginazione, è divenuta una formula inquinata di chimica industriale, dalla cui depurazione dipende la sopravvivenza umana.
In ABC: the alphabetization of the popular mind (1989), scritto in collaborazione con Barry Sanders, Illich mostra in che modo il nostro modo di pensare, nel corso del tempo, è andato soggetto a tre successivi profondi cambiamenti. Il primo di tali cambiamenti ha avuto luogo con l’introduzione dell’alfabeto. Un secondo si è manifestato nel corso del XII secolo con lo sviluppo della pagina scritta che ci ha fatti passare da un’oralità pubblica e una realtà parlata a un paradigma di alfabetizzazione e a una realtà scritta. Infine, la terza trasformazione è connessa all’introduzione del computer e dei programmi informatici che hanno reso le nostre riflessioni sempre più influenzate dalla logica e dall’efficienza dello strumento tecnico che dai significati incorporati in una conversazione viva e nella tradizione parlata.
Nel 1992 escono altri due libri importanti, in cui ritroviamo l’Ivan Illich appassionato cultore del Medio Evo: Nello specchio del Passato (In the Mirror of the Past), che svela le radici storiche delle istituzioni della società moderna individuate nel XII secolo; e Conversazioni con Ivan Illich (Ivan Illich in Conversation), a cura di D. Cayley, nel quale sostiene come l’istituzionalizzazione della Chiesa, a partire dall’abbraccio costantiniano, sia divenuta il modello di tutte le istituzioni della modernità. Quando Gesù raccontava la storia del Samaritano, lo straniero che si ferma a soccorrere il giudeo mezzo morto nel fossato, voleva indicare — secondo Illich — una meravigliosa nuova possibilità, non una norma etica. Ma la Chiesa, pervertita dal potere temporale, comincia a fraintendere la differenza tra conversione e dovere di soccorrere. La possibilità di riconoscere Dio in un’altra persona si è trasformata nella possibilità di una nuova, più intima forma di potere esercitato da coloro che credevano di poter garantire, assicurare e istituzionalizzare questa possibilità (Cayley, 2003).
Infine, nel suo ultimo lavoro, Nella vigna del testo (In the Vineyard of the Text:A Commentary to Hughs Didascalicon, 1993), propone non solo uno straordinario commento al Didascalicon di Ugone di S. Vittore (un brillante Monaco del Medio Evo) ma evidenzia anche i grandi mutamenti che da allora sono intervenuti nel nostro modo di considerare l’apprendimento, la lettura, le conoscenze, il sapere.
Un ricercatore itinerante
Alla fine degli anni Settanta Illich lascia definitivamente il Messico per stabilirsi in Europa, o meglio per iniziare quella sorta di insegnamento itinerante — molto spesso come visiting professor — che contrassegnerà il resto della sua vita: a Brema, a Firenze, a Berkeley, a Filadelfia, in Messico. In effetti comincia a temere che lo stesso CIDOC possa diventare controproduttivo, così diventa un ricercatore e un docente «senza sede».
In ogni luogo in giro per il mondo, dove può mettere assieme un circolo di amici con cui avere una conversazione conviviale ma profonda, spesso attorno a un tavolo, mangiando assieme un piatto di pasta a lume di candela, può fermarsi anche alcuni mesi al fine di approfondire la riflessione propria e altrui: «Credo che, se in questo mondo di tecnologia ci rimane ancora qualcosa della politica, ciò comincia dall’amicizia. Quindi il mio compito è quello di coltivare l’amicizia in modo sistematico, disinteressato, attento e sensibile» (cit. in Swenson, 2003). Attraverso la pratica di una coinvolta, comprensiva e affettuosa amicizia, Illich sosteneva l’autostima e l’autorealizzazione degli individui che incontrava contro il retroterra ostile di quello che chiamava «fascismo manageriale», la cultura burocratico-manageriale che aveva espropriato sempre più la vita delle persone da loro stesse, affidandola a insegnanti, operatori sociali ed esperti di vario tipo certificati e accreditati dallo Stato.
Nell’ultimo decennio della sua vita, l’attività di Illich come saggista si riduce considerevolmente, in parte per una malattia, per la quale — coerentemente alle proprie convinzioni — non cerca trattamenti specifici, ma anche perché è meno interessato a pubblicare e sempre più interessato a mettere in pratica le proprie convinzioni. L’interrogarsi sulla responsabilità ambientale e sulle nuove ideologie della vita lo portano a distanziarsi dalle posizioni degli ambientalisti e dei movimenti per la vita. Vedeva questi tentativi di migliorare la condizione umana come basati esclusivamente sulla scienza e riteneva che ciò li portasse a disconoscere i loro fini. Usava una frase latina per sintetizzare questo processo in atto nella nostra storia: corruptio optimi quae est pessima (è la corruzione di ciò che è ottimo la cosa peggiore). Di fronte a queste tentazioni, sarebbe stato bene dedicarsi a nuove forme di ascetismo, di silenzio e di distacco. Una semplicità di vita che Illich per primo aveva scelto per sé: non aveva una casa sua e si affidava all’ospitalità dei suoi amici, si spostava da un luogo all’altro con tutte le sue cose, per le quali bastavano due sole valigie, non godeva di coperture assicurative e alla fine di ogni anno distribuiva il di più che gli era rimasto.
In questo modo Illich aveva incorporato, nella vita personale come nel suo lavoro, un radicale distanziamento dagli imperativi della vita moderna: longevità, successo e ricchezza. In tutte le sue opere aveva testimoniato il potere distruttivo delle istituzioni moderne che creano i bisogni più velocemente di quanto possano soddisfarli e nel processo di ricerca di soddisfazione dei bisogni generati consumano il mondo. L‘ethos della non sazietà è alla base del depredamento sistematico della natura, della polarizzazione sociale e della passività psicologica. Al posto dell’economia del welfare e del management ambientale, Illich proponeva l’amicizia e l’autolimitazione.
Tutti i suoi amici sono concordi nel testimoniare la sua vitalità e la sua sensibilità. Non era solo un pensatore, agiva. Era impegnato nei confronti dei poveri ma non nel senso «ti aiuto perché so che sei bisognoso», ma in maniera dialogica, nel tentativo continuo di capire quale fosse il vero bisogno e non quello imposto che crea disperazione e sofferenza. Apprezzava i piaceri minuti della vita, ma era pronto anche ad accoglierne le inevitabili sofferenze.
Certamente soffriamo, ci ammaliamo, moriamo. Ma anche speriamo, ridiamo, celebriamo; conosciamo la gioia dell’interessarsi degli altri; spesso siamo aiutati e spesso siamo noi che aiutiamo in vario modo. Non dobbiamo appiattirci sull’esistenza umana. Invito tutti a guardare fisso davanti a sé, a non preoccuparsi della propria salute, a coltivare l’arte di vivere. E oggi, con uguale importanza, l’arte del soffrire, l’arte del morire. (Illich, cit. in Brown, 2003)
La crescita tumorale su un lato del volto gli tormentò il trigemino per quasi vent’anni. Coerente con la sua critica alla medicina ufficiale, aveva tentato, senza successo, di curarla con metodi tradizionali: fumava regolarmente oppio per lenire il dolore. All’inizio della malattia aveva consultato un medico per valutare la possibilità di rimuovere il tumore, ma gli era stato detto che avrebbe avuto molte probabilità di perdere la facoltà della parola. Così decise di convivere meglio che poteva con la malattia, che chiamava «la mia mortalità». Nello spiegare la sua scelta personale di questa sofferenza accettata volontariamente, che gli deturpava il viso, gli impediva un’alimentazione ordinaria e gli provocava dolore, rispondeva semplicemente con un’altra massima latina: nudum Christum nudum sequere (il mio modello è Cristo). Tuttavia, non fu il tumore a portarlo alla morte ma, probabilmente, un arresto cardiaco che nella mattinata del 2 dicembre 2002, in pochi secondi, gli fece interrompere il lavoro che stava ultimando.
Due giorni dopo la sua scomparsa, il «New York Times» gli dedicò un necrologio acido, anziché un ricordo significativo, come si usa di solito. Lo descrisse come un sociologo controintuitivo, un inquieto rappresentante della generazione del babyboom che utilizzava argomenti gesuitici e un marxismo annacquato; citò anche un critico dello stesso giornale il quale aveva affermato di aver buttato i libri di Illich fuori dalla sua biblioteca. Data la sua opposizione allo status quo, il primo a non sorprendersi per queste considerazioni sarebbe stato Illich stesso.
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Note
1 Fa parte di questo lavoro collettaneo il saggio di McKnight proposto a p. 205 di questo numero della rivista. [ndr]
2 Pur negli evidenti limiti di questo articolo, è opportuno riferire il significato che Illich attribuisce all’espressione «vernacolare». Si tratta di un termine tecnico che deriva dal diritto romano. In latino designava tutto ciò che nasceva, veniva tessuto, cresciuto e fatto in casa, in contrapposizione a ciò che ci si procurava con scambi formali. Normalmente il vocabolo è conosciuto nell’unica accezione linguistica (sinonimo di dialetto), mentre Illich lo riprende nel suo antico significato per designare quelle attività umane — non motivate da azioni di scambio — mediante le quali la gente soddisfa bisogni quotidiani.
Fonte: Edizioni Erickson – Trento lavoro sociale Vol.8, n.2, settembre 2008 (pp. 269-281)