La Schindler del lavoro sociale di Bruno Bortoli — Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Irena Sendler «Jolanta» (Varsavia, 15 febbraio 1910 12 maggio 2008)
Irena Sendlerowa (Irena Sendler) è morta il 12 maggio 2008, in una residenza per anziani di Varsavia, la sua città, dove era nata 98 anni prima. Qualche anno fa si è scoperto che questa gentile signora, che durante la sua vita aveva lavorato come operatrice per i servizi sociali della sua città, durante la seconda guerra mondiale era stata autrice di atti eroici, guidando una rete clandestina che aveva contribuito a salvare più di 2.500 bambini ebrei. In accordo con i loro genitori i minori erano stati fatti uscire dal ghetto, di nascosto, al fine di risparmiare, almeno a loro, la sorte cui erano destinati. Questi bambini erano stati poi affidati a famiglie di contadini del circondario oppure inseriti in orfanotrofi come quello di Varsavia, gestito dalle Suore della Famiglia di Maria, oppure nascosti in conventi cattolici mescolandoli ad altri minori che avevano perso i genitori in conseguenza degli eventi bellici.
Dopo il suo rocambolesco salvataggio, avvenuto mentre stava per essere giustiziata, Irena Sendler si premunì contro ogni evenienza prendendo i foglietti (erano cartine per sigarette) sui quali aveva annotato i nomi dei bambini fatti uscire dal ghetto con i loro nuovi nomi — ne aveva fatto due copie per sicurezza — e aveva inserito queste «liste» in due bottiglie che in seguito aveva sepolto nel giardino di una collega, al fine di permettere di salvaguardare l’identità dei bambini sottratti all’annientamento.
Dopo la guerra i barattoli furono dissotterrati e la «Sendlerliste» fu consegnata ai rappresentanti del popolo ebraico, per consentire il ricongiungimento con i familiari, laddove — purtroppo solo in minima parte — i familiari fossero sopravvissuti ai campi di sterminio.
A differenza dell’industriale tedesco Oskar Schindler che salvò più di 1.000 ebrei impiegandoli nella sua fabbrica di Cracovia, la cui storia è divenuta famosa grazie a un libro e a un film di successo, la vicenda di Irena Sendlerowa rimane abbastanza sconosciuta.
La notorietà internazionale è in gran parte dovuta alla recente iniziativa di alcune giovani studentesse del Kansas. Esse, nell’autunno del 1999, erano state invitate dal loro professore di liceo a svolgere una ricerca su Irena Sendler per verificare se effettivamente fosse stata l’artefice del salvataggio di un così grande numero di persone, come un trafiletto pubblicato su un giornale americano aveva evidenziato (il docente riteneva che doveva esserci un errore nel numero perché non aveva mai sentito parlare di questa donna o di questa storia). Le studentesse scoprirono che Irena Sendler, un’operatrice sociale, non ebrea, andava nel ghetto, parlava a lungo con i genitori e con i nonni, dicendo loro la verità, ossia che erano tutti destinati a morire nel ghetto o in altri campi di sterminio, e portava i ragazzi fuori dal campo dichiarando come stratagemma che erano malati e che sarebbero stati curati all’esterno, oppure facendoli passare di nascosto da pertugi ricavati nelle mura che dividevano i due settori della città.
Come esito delle loro ricerche le studentesse crearono un lavoro teatrale, della durata di dieci minuti1, intitolato: La vita in un barattolo, che presentava le gesta eroiche di Irena Sendler, e che concorreva a uno dei tipici concorsi che coinvolgono gli istituti scolastici in molti Paesi.
Dopo aver preparato e rappresentato lo spettacolo teatrale in onore di Irena, stupite che la loro eroina fosse ancora in vita, entrarono in corrispondenza con lei. Due anni dopo, grazie a un aiuto offerto da un gruppo di ebrei americani sopravvissuti ai campi di sterminio, le ragazze poterono visitarla a Varsavia.
Irena le accolse calorosamente dicendo che il loro impegno, la loro rappresentazione e il loro lavoro proseguivano lo sforzo che aveva avviato cinquant’anni prima e che «avevano fatto molto per il mondo, per la [loro] patria, per la Polonia e per [lei]» (Mieszkowska, 2006, p. 38).
Nei banchi sul lato sinistro
Irena Sendler poco dopo la nascita aveva dovuto trasferirsi con la famiglia a Otwock, una cittadina a circa 15 miglia a sudest della capitale polacca per trovarvi un ambiente più salubre per le sue difficili condizioni di salute. Il padre, medico, aveva dovuto lasciare un confortevole posto ospedaliero per un precario posto di medico generico per il quale — in mancanza delle assicurazioni sociali — doveva contendere la scarsa clientela pagante agli altri colleghi esistenti. Lo spirito umanitario del padre, di idee socialiste, lo portava non solo ad assistere gratuitamente la parte più povera (soprattutto ebrei) della cittadina ma anche a soccorrerla ulteriormente con i propri scarsi mezzi. In breve tempo le condizioni economiche della famiglia furono ai limiti della sopravvivenza. Fortunatamente dei familiari abbienti vennero loro incontro e, anzi, finanziando la costruzione di un sanatorio che fruiva del clima di quella città, garantirono al medico e alla famiglia una base economicamente più solida. Poi ci fu la guerra con il suo corredo di pestilenze: nel 1917 un’epidemia di tifo colpì la regione. Il padre di Irena, ancora una volta, non si risparmiò; fu colpito egli stesso dalla malattia e ne morì: aveva 40 anni.
La madre cercò orgogliosamente di farcela da sola rifiutando anche l’aiuto della comunità ebraica, che per debito di gratitudine nei confronti del dottor Sendler si era detta disposta a sostenere finanziariamente l’istruzione di Irena. In seguito il nonno materno e gli zii — persone benestanti — le presero con loro garantendo, così, il loro futuro.
A 17 anni Irena ottenne la licenza liceale e, avendone scoperta l’esistenza, avrebbe voluto recarsi a Parigi per frequentare una scuola di Servizio sociale, un tipo di formazione allora assente nel suo Paese2. Gli zii sarebbero stati anche disposti a sobbarcarsi l’onere finanziario ma gli altri familiari si spaventarono di fronte all’idea di questa adolescente da sola a Parigi, e così Irena optò per l’iscrizione universitaria nella sua città. Qui inizialmente scelse gli studi di diritto che, secondo il suo parere, avrebbero potuto darle una solida base per il suo futuro di impegno sociale, ma ne fu ben presto delusa: l’indirizzo universitario ne era quanto mai lontano e, quindi, mutò ulteriormente campo di studio, avviandosi agli studi letterari. Già si vedeva nel suo futuro ruolo di insegnante, ma non aveva fatto i conti con l’innato istinto libertario e solidaristico mutuato dalla famiglia di origine.
Negli anni Trenta, la Polonia viveva una situazione politicamente complicata. Nel maggio del 1926 vi era stato un colpo di Stato capeggiato dal generale Pilsudski, che da allora era divenuto, sostanzialmente, il dittatore del Paese. La maggioranza politica, di estrema destra, favoriva l’antisemitismo anche nelle università dove le autorità accademiche lasciavano fare. Uno dei provvedimenti connessi a tale politica riguardava la divisione dei banchi delle aule fra ariani e non ariani con la creazione delle cosiddette «bancate-ghetto» (ibidem, p. 64). Nell’ultima pagina del libretto dello studente veniva apposta l’indicazione dell’appartenenza al gruppo «ariano» o a quello «ebreo» unitamente al lato da occupare all’interno dell’aula: a destra gli ariani, a sinistra gli altri. Irena Sendler, «ovviamente», con pochi altri ariani aveva deciso di sedere sempre sul lato sinistro, assieme agli ebrei, mostrando così loro la sua solidarietà. Dopo ogni lezione gli ebrei e quei polacchi che avevano preso posto nella parte sinistra dell’aula erano oggetto di provocazione da parte degli studenti di destra che appartenevano a un’organizzazione oltranzista. Un’amica ebrea di Irena fu un giorno così maltrattata che la nostra prese a pugni il suo aggressore, sputandogli sui piedi e gridandogli in faccia: «bandito» (ibidem, p. 65). Un’altra volta gli stessi aggressori trascinarono per i capelli alcune studentesse ebree dal secondo piano fino al piano terra. Irena era così furente che prese il suo libretto e con la penna cancellò la scritta: «lato destro ariano». Per questo fu severamente punita: quando in giugno dovette consegnare il libretto perché vi venissero registrati gli esiti degli esami, venne sospesa a tempo indeterminato dall’università. In seguito, una volta all’anno, si rivolgeva al Rettorato chiedendo di essere nuovamente ammessa per poter completare i suoi studi ottenendone, ogni volta, una risposta negativa. Andò così per tre anni. «Probabilmente non avrei mai potuto terminare i miei studi se il Rettore nel 1938 non si fosse recato all’estero per alcuni mesi. Il suo sostituto, un noto filosofo, molto umano, ascoltò il mio problema, mi diede un colpetto sulla spalla affermando che mi ero comportata nella maniera giusta e che avrei potuto riprendere i miei studi il giorno stesso» (ibidem). Così nell’anno successivo, nel giugno del 1939, Irena poté discutere la sua tesi e ottenere il diploma di laurea.
In mancanza di un titolo di studio che la legittimasse, non aveva comunque potuto svolgere l’attività di insegnamento alla quale ambiva e nemmeno ottenere degli incarichi temporanei per i quali era d’ostacolo la sua fama di «rossa».
L’entusiasmo per il lavoro sociale
Fu, quindi, anche la necessità di avere un impiego che la portò a operare presso la sezione Assistenza alla maternità e infanzia del Comitato cittadino di assistenza3 sociale. In questa sezione ci si occupava dei disoccupati dato che, in quel tempo, in Polonia vi era una disoccupazione di massa. Era anche il luogo di tirocinio per gli studenti della Libera accademia polacca per la formazione al lavoro sociale. Irena Sendler iniziò il suo lavoro il 1° agosto 1932.
Ricorda in maniera gioiosa:
Fin dal primo giorno rimasi colpita dall’atmosfera cordiale, dall’umanità, dagli scopi, dall’idea del bene e della giustizia sociale da diffondere in tutto il mondo. Questa atmosfera era contagiosa… ero incantata, pensavo di essere finita in un altro mondo. In un mondo che per me, grazie ai miei genitori, non era qualcosa di estraneo. All’inizio mi spiegarono i principi del nostro lavoro, vale a dire l’analisi del contesto delle persone che domandavano aiuto. Una volta effettuato tale esame, ognuno agiva in base alla propria discrezionalità. Questo mi sconcertava molto ma più tardi compresi quanto fosse saggio e corretto questo modo di procedere. Gli operatori dovevano avere le mani libere e poter agire autonomamente. Ogni uno o due mesi si era sottoposti a verifica. In un incontro comune ognuno presentava il proprio metodo di lavoro. A seconda del bisogno veniva erogata assistenza medica o legale o economica o tutte insieme. (Ibidem, p. 66)
La sezione disponeva di un consistente servizio di assistenza legale, che difendeva gli inquilini, i quali — in base alla legge — venivano sfrattati dopo alcuni mesi che non pagavano l’affitto, senza alcuna considerazione del numero dei figli a carico o della stagione dell’anno. Vi era inoltre un ufficio di assistenza legale che si occupava dei bambini illegittimi e, attraverso dei provvedimenti giudiziari, obbligava i padri a pagare le spese di mantenimento. A tali uffici era annesso quello dell’assistenza sanitaria che si occupava delle madri disoccupate, le quali, non disponendo di un’assicurazione, non avevano diritto all’assistenza medica. Il ruolo delle operatrici sociali comportava l’esame del contesto degli assistiti, l’offerta di una consulenza giuridica e una specifica assistenza alle madri nubili.
Dopo un po’ di tempo a Irena Sendler venne affidata la direzione del servizio per i bambini illegittimi, il cui numero era in aumento perché sempre più ragazze delle campagne venivano a Varsavia a cercare lavoro e molte di loro finivano preda degli sfruttatori. Dopo un anno che lavorava in questo servizio, Irena pubblicò sulla rivista professionale «L’uomo in Polonia» un articolo allarmante, nel quale richiedeva garanzie giuridiche e sociali per quelle ragazze sfortunate (ibidem, p. 67).
In questa istituzione tutti lavoravano con altruismo e grande impegno, pur in presenza di una costante mancanza di risorse monetarie con le quali venire incontro alle necessità di tutti gli assistiti. Questo lavoro, tuttavia, non piaceva alle autorità di allora per due motivi: sulla rivista «L’uomo in Polonia» gli operatori scrivevano apertamente delle tragiche conseguenze della disoccupazione. Inoltre, la situazione si aggravò per la presenza di molti operatori appartenenti alla sinistra che suscitava il malcontento dei partiti conservatori al governo.
Così nella primavera del 1935 la sezione Maternità e infanzia venne sciolta. Agli operatori era stato promesso che sarebbero stati assunti dall’ufficio assistenziale dell’amministrazione comunale di Varsavia, e in un certo senso fu così, ma solo dopo avere smembrato il gruppo e collocato ogni operatore in un luogo diverso. Irena Sendler fu inserita nell’ufficio sanitario e sociale di un distretto cittadino, i cui compiti erano quelli di assistere i poveri (in prevalenza disoccupati) e la popolazione di una baraccopoli. Più tardi lavorò in diverse sezioni di un altro distretto nel quale, fra le altre cose, doveva occuparsi anche della formazione del personale neoassunto.
Nel frattempo Irena si era sposata con un giovane assistente universitario e conduceva una vita che, più avanti, avrebbe ricordato come serena e densa di soddisfazioni professionali.
«Io non potevo rimanere indifferente»
Poco dopo lo scoppio della guerra, nel 1939, la Germania invase la Polonia: il 27 settembre venne firmata la capitolazione. All’epoca Irena era divenuta la dirigente del dipartimento dei servizi sociali che si occupava delle mense di tutti i distretti cittadini; a tale ruolo affiancò immediatamente il suo impegno di resistente nelle file del partito socialista polacco. Quest’ultimo rappresentava uno dei pochi gruppi politici polacchi che difendevano gli ebrei: «già nell’autunno 1939, mentre i tedeschi ordinano alle autorità di licenziare gli impiegati ebrei e di non erogare assistenza ai poveri di origine ebraica, ci organizzammo dapprima in cinque e poi in dieci e creammo, tanto presso la sede centrale che in quelle di distretto, le cosiddette “cellule” di soccorso agli ebrei» (ibidem, p. 74).
Nell’ambito dell’ufficio sociale comunale in cui era attiva Irena vi era anche la sezione per l’assistenza ai minori. I suoi compiti consistevano nel ricoverare in strutture assistenziali i bambini senzatetto. La sezione si occupava anche — in via ufficiosa — dei piccoli futuri abitanti delle zone abitate dagli ebrei e che in seguito avrebbero formato il ghetto.
Nessuno degli operatori agiva in nome di un’organizzazione politica (sebbene ognuno di loro fosse anche impegnato politicamente), anche se «l’adesione volontaria a tale impegno era la vocazione di ciascuno di noi, poiché agivamo a partire dai sentimenti umani e dalla fedeltà ai fondamenti del lavoro sociale e questi ci spingevano ad aiutare i più sfortunati, fra cui soprattutto gli ebrei colpiti da questo destino» (ibidem, p. 75). Di giorno in giorno la loro sorte peggiorava in ogni parte della città. A Varsavia vi erano dodici uffici assistenziali. L’aiuto (illegale) che essi potevano prestare era del tutto insufficiente rispetto ai bisogni. Ricorda Irena Sendler che, dopo avere discusso con i colleghi e i funzionari del suo distretto, venne organizzato «un aiuto di vicinato». Gli operatori si impegnarono a trovare in ogni palazzo una famiglia abbiente che avrebbe potuto prendersi l’impegno di procurare a dei vicini poveri un pasto caldo al giorno. Quest’idea ebbe un grande successo e, in seguito, fu adottata anche dagli altri uffici sociali distrettuali.
Trasferita, con funzioni di responsabile, in un ufficio di distretto vicino alla sua abitazione, dove risiedeva anche la mamma molto ammalata, Irena poteva approfittare della prerogativa di individuare le famiglie alle quali assegnare il soccorso. Era un quartiere operaio dal quale i tedeschi avevano cominciato a deportare in massa i giovani per il lavoro coatto in Germania. Così le operatrici ebbero l’idea di creare una cooperativa con attività di calzolaio, falegname e sarto e occupare così i giovani evitando loro la deportazione. Con il tempo i tedeschi capirono il loro proposito e cominciarono a chiedere il certificato medico per questi occupati. Le operatrici si adoperarono affinché venisse rilasciato loro un certificato di malattia polmonare.
Più tardi, le autorità cittadine, avendo scoperto che Irena aveva trasgredito le disposizioni aiutando gli ebrei del ghetto, per punizione la trasferirono in un altro distretto molto distante dalla sua abitazione.
Al 1° dicembre 1939 gli ebrei furono obbligati a indossare il bracciale con la stella di David, così come i loro negozi dovevano essere riconoscibili. E dovettero subire ulteriori limitazioni: case e appartamenti vennero requisiti, i conti bancari bloccati. Gli impiegati pubblici furono licenziati. Alla fine Varsavia risultò divisa tra zone tedesca, polacca e ebrea, con conseguente trasferimento della popolazione. Anche gli ebrei residenti in altre parti del Paese vennero portati nel ghetto: al 16 novembre 1940, la popolazione di quest’ultimo era lievitata fino a raggiungere il numero di 400.000 abitanti.
L’ordine emanato il 15 ottobre 1941 dal governatore generale Hans Frank vietava agli ebrei di uscire dal ghetto e ai polacchi di prestare loro aiuto. In caso di violazione di questa regola, tanto per gli uni che per gli altri, era prevista la pena di morte.
«I tedeschi avevano deciso di annientare il popolo ebraico e io non potevo rimanere indifferente» sottolinea Irena Sendler (ibidem, p. 78). Nella zona ebraica abitavano molti delle persone a lei più vicine, fra i quali diversi colleghi variamente impiegati in istituzioni assistenziali (soprattutto mense, centri diurni) e strutture residenziali.
Per poter aiutare gli ebrei bisognosi era necessario che coloro se ne occupavano si conoscessero bene, bisognava agire velocemente e falsificare centinaia di documenti.
Gli assistiti ebrei, anziché essere registrati con i loro nomi, venivano inscritti con nomi polacchi. «Per me e per la mia collega Irena Schultz mi procurai dei tesserini del reparto sanità fra i cui compiti vi era la lotta alle malattie contagiose. Più tardi riuscii a ottenere tali tesserini anche per altre donne del nostro gruppo. Questi permisero il nostro ingresso legale nel ghetto fino all’aprile del 1943» (ibidem).
Un grosso aiuto venne dal responsabile dell’ufficio sanitario dott. Julius Majkowski. I tedeschi avevano una paura folle delle epidemie di tifo, che in quelle situazioni di sovraffollamento, denutrizione e scarsa igiene rappresentavano un pericolo crescente. Al fine di non mettere in contatto le potenziali fonti di contagio permisero agli operatori polacchi di tenere il posto sotto controllo. Questi passavano dalla porta del ghetto spesso, anche più volte al giorno. Disponevano di denaro dai fondi dell’ufficio sociale, più avanti generi alimentari, medicinali (in particolare contro il tifo), bendaggi. Portavano nel ghetto anche vestiti: ognuno degli operatori indossava contemporaneamente più vestiti uno sopra l’altro: «per me che ero snella non era molto difficile» raccontava Irena (ibidem, p. 79).
Nell’inverno del 1942 le condizioni di vita diventarono ancora peggiori. Adulti e bambini morivano di fame, di freddo e di malattie. In gennaio l’ufficio sociale intraprese un’azione con la quale intendeva contrastare il fenomeno dei bambini mendicanti nelle diverse zone della città di Varsavia. L’azione era stata sollecitata dalla polizia; in una fredda e nevosa giornata di gennaio un autocarro con a bordo due operatrici sociali e un poliziotto fu inviato a raccogliere i piccoli vagabondi per accompagnarli in una struttura di accoglienza. Dopo che furono lavati, cambiati e nutriti rimasero per tre giorni a disposizione di medici, psicologi e tutti gli assistenti. Già con il primo carico ci si accorse che la metà dei bambini erano ebrei. Tutta Varsavia sapeva che i bambini ebrei uscivano di nascosto dal ghetto per mendicare. Così, per venire loro incontro, dopo averli rifocillati vennero accompagnati verso il muro del ghetto, sfuggendo al controllo della polizia, e poterono rientrare per lo stesso pertugio nascosto dal quale erano usciti.
Per salvare i bambini del ghetto
Non appena entrava nel ghetto Irena Sendler indossava il bracciale con la stella di David. Era un gesto di solidarietà verso la popolazione rinchiusa. Ma serviva anche a passare inosservati negli incontri fortuiti con i tedeschi, così come a non destare diffidenza negli ebrei che non la conoscevano. Un giorno, prima di uscire dal ghetto, distratta dalle scene drammatiche delle quali era stata testimone, dimenticò di togliersi il bracciale. Si era nel luglio 1942 quando la repressione aveva cominciato a intensificarsi e gli abitanti del ghetto avevano iniziato a divenire consapevoli che l’unica soluzione prevista per loro era quella dello sterminio.
Un sorvegliante tedesco si scagliò contro di me e voleva picchiarmi e un poliziotto polacco mi strappò di mano il tesserino di riconoscimento: mi sentii in grave pericolo ma la sorte mi fu benigna. Nella mia disperazione suggerii al poliziottoche per un chiarimento poteva telefonare al dr Majkowski per sincerarsi sulla mia identità. Egli seguì effettivamente il mio consiglio. Per fortuna il dr Majkowski mangiò la foglia e confermò che il mio documento era del tutto ufficiale e che io mi trovavo nell’area del ghetto su sua disposizione. (Ibidem, p. 79)
Nella notte del 22 luglio 1942 un’unità ucraina dell’esercito tedesco insieme alle SS avviò la GrosseAktion, la deportazione verso Treblinka degli abitanti del ghetto che continuò fino al 21 settembre. Ogni giorno più di 6.000 bambini, donne e vecchi venivano posti sui treni e trasferiti. Di questo evento, tramite il governo polacco in esilio, era stata data notizia alla BBC, ma l’enormità del fatto era tale che questa non credette alla notizia, ritenendo che si trattasse di propaganda antinazista.
Dopo questa cosiddetta «grande azione» rimasero nel ghetto solamente i lavoratori. Ufficialmente vi erano soltanto 40.000 abitanti, in realtà erano almeno 30.000 di più, comprendendo quelli che si tenevano nascosti. La grande azione era stata tuttavia per loro un grande shock.
Immediatamente dopo la fine di tale deportazione di massa, nell’ottobre 1942 i tedeschi rafforzarono i loro controlli. Introdussero uno stretto controllo sull’ufficio sociale — che era sospettato di aiutare gli abitanti del ghetto — verificando in quale modo venisse erogata l’assistenza.
«Una delle mie colleghe» ricorda Irena Sendler «conosceva la mia grave situazione. Sapeva che aiutavo di nascosto gli ebrei. Mi riferì dell’attività di una neocostituita organizzazione che si chiamava “Zegota”»4 (ibidem, p. 123). L’amica invitò Irena a recarsi a un indirizzo dove avrebbe trovato, mascherato da un nome in codice, il responsabile dell’organizzazione Julian Grobelny. Irena vi andò e gli riferì l’attività realizzata e le difficoltà nelle quali si dibattevano dopo le ristrettezze imposte dai tedeschi. Dopo averla ascoltata e averle posto qualche domanda, Grobelny le propose la sua collaborazione, le garantì delle risorse chiedendo che in cambio venisse costituita una piccola rete di colleghe fidate. Più tardi a Irena, nome in codice «Jolanta», venne affidata la direzione della sezione per l’assistenza ai bambini ebrei in seno a Zegota.
La sezione aveva il compito di procurare nascondigli per i minori, di diverse età, che si era riusciti a far uscire clandestinamente dalla recinzione del ghetto, e di organizzare loro una vita nella parte «ariana». Questi minori in base all’età, sesso e aspetto fisico venivano alloggiati in parte in famiglie polacche (i più piccoli), in parte in strutture residenziali religiose e laiche. I ragazzi più grandi, che non potevano apparire come orfani da assistere, vennero aggregati alle unità partigiane.
Ogni caso era diverso. Prima di far uscire i bambini dal ghetto era necessario raccogliere informazioni sul loro ambiente familiare grazie alla collaborazione del Consiglio Ebraico o di altri organismi volontari. Era importante che il bambino parlasse il polacco. Bisognava predisporgli dei documenti e procurargli anche un falso atto di nascita, per il quale si poteva contare sulla collaborazione degli uffici parrocchiali cattolici.
«Le spaventose condizioni di vita nel quartiere ebraico decimarono, letteralmente, i suoi abitanti» dice Irena Sendler. «Vi erano case nelle quali non vi era più alcun adulto ed erano rimasti solo bambini orfani e senza aiuto. Un modo per salvarli era naturalmente quello di toglierli dal ghetto, ma non si poteva farli uscire tutti insieme» (ibidem, pp. 130-131). Dapprima bisognava aiutarli sul posto, trovando loro degli assistenti e rifornendoli di generi alimentari. E le strade del ghetto erano piene di bambini che vagavano: «li vedevamo quando entravano nel ghetto, e quando, dopo alcune ore, uscivamo, erano spesso solo dei piccoli cadaveri coperti da fogli di giornali» (ibidem, p. 131).
Irena e le sue colleghe prendevano contatto con le famiglie che avevano bambini e dicevano loro che esisteva la possibilità di salvarli facendoli passare dall’altra parte del muro. Naturalmente la domanda fondamentale posta dai genitori verteva sulle garanzie di riuscita di questa azione. «Dovevamo rispondere onestamente che non potevamo dare alcuna garanzia. Dicevo loro apertamente che non sapevo nemmeno se io stessa sarei riuscita, lo stesso giorno, a lasciare il ghetto insieme al bambino» (ibidem). Le scene che avvenivano erano degne dell’inferno dantesco. Per esempio poteva succedere che il padre si convincesse e si dicesse d’accordo di affidare il figlio, ma la madre no. E la nonna, che abbracciava strettamente il bambino, scoppiava in lacrime ed esclamava: «Per nulla al mondo mi separerò dal mio nipotino» (ibidem, pp. 131-132). Talvolta le operatrici si accomiatavano da queste infelici famiglie senza portare con sé il bambino ma, ritornando il giorno successivo, non era infrequente trovarli tutti pronti al luogo di partenza.
«Le madri che ci affidavano i loro bambini avevano le lacrime agli occhi» racconta Irena Sendler «[…] quanto era difficile per ognuno di loro […] chi poteva sapere se avrebbero potuto vederli ancora?» (ibidem, p. 132).
Katharzyna Meloch, una delle bambine salvate dall’Olocausto con questo sistema, afferma: «madri [come queste] erano le vere eroine di guerra. Erano madri che affidavano i loro bambini in mani estranee affinché sopravvivessero» (ibidem).
Le madri ebree preparavano i loro figli, talvolta per mesi, alla vita nella parte ariana, dando loro un’altra identità: «Non ti chiami Icek ma Jacek, non Rachele ma Roma, e io non sono la tua mamma bensì la domestica di famiglia. Adesso vai con questa signora e poi aspetta finché vengo a prenderti» (ibidem).
A uno dei questi bambini salvati che, quarant’anni più tardi, chiedeva all’«infermiera Jolanta» (la maggior parte dei bambini salvati da Irena Sendler continuò a chiamarla a lungo con questo nome) come avesse potuto sua madre affidarla a della gente sconosciuta, rispose: «Sua madre l’ha affidata per amore.» (ibidem).
C’erano diverse modalità di salvare i bambini piccoli dal distretto dell’annientamento. Ma era con l’aiuto prestato dalla polizia polacca che l’azione aveva possibilità di riuscire. Frequentemente i bambini uscivano in ambulanza come bisognosi di cure ospedaliere all’esterno; i più grandicelli uscivano attraverso la rete fognaria o i pertugi ricavati nei muri che facevano da confine fra il ghetto e il resto della città.
I più piccoli nel… «bagaglio a mano»5. Anche i tram che entravano e uscivano dal ghetto, con la complicità di tranvieri fidati, erano spesso dei mezzi di soccorso. L’attuale portavoce dei bambini salvati dalla rete di Irena Sendler, Elzbieta Ficowska, fu portata fuori all’età di cinque mesi, nel luglio del 1942, in una cassetta per gli attrezzi posta su un carretto.
Il 16 aprile 1943 scoppiò la rivolta nel ghetto, anticipata da un’azione nel gennaio precedente. Era vista come l’opportunità, per una parte dei residenti, di morire combattendo — con una piccola speranza di salvezza — invece che andare incontro a morte sicura nei campi di concentramento. Repressa l’insurrezione il 16 maggio, il capo della polizia tedesca poté affermare che a Varsavia il ghetto non c’era più. Questo, ufficialmente, in quanto una parte dei residenti continuò a rimanere nascosta e qualcuno di loro anche a sopravvivere, come nella vicenda descritta ne Il pianista di Wladyslaw Szpilman.
In attesa dell’esecuzione
Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre 1943 la Gestapo, dopo aver circondato la casa, penetrò in massa nell’alloggio che Irena condivideva con la mamma ammalata e nel quale era presente, casualmente, un’amica che era venuta a trovarla (era il giorno onomastico di Irena) ed era rimasta per la notte. Pronta a gettare dalla finestra il suo «archivio», si accorse della presenza della polizia all’esterno e così nascose la cartelletta con la lista dei bambini salvati tra le pieghe del cappotto dell’amica e collega.
Quando le SS le ordinarono di vestirsi e di seguirle Irena ne fu, per quanto possa apparire incredibile, «felice» (ibidem, p. 156) perché la lunga e minuziosa perquisizione durata oltre tre ore non aveva fatto scoprire «la lista» e nemmeno una forte somma di denaro che Irena aveva appena ricevuto da Zegota (e che serviva per sostenere gli affidi dei bambini portati fuori dal ghetto), rimasta nascosta dai pezzi del letto distrutto durante la perquisizione. «Avevo così fretta di seguirli che non mi ero nemmeno accorta di essere in ciabatte» (ibidem): le scarpe le furono portate dall’amica che l’aveva rincorsa. Mentre era sul cellulare che la conduceva in carcere si ricordò con terrore di avere in tasca la lista con i nomi dei bambini che avrebbe dovuto vedere l’indomani; dopo avere sminuzzato il fogliettino, approfittando della sonnolenza di cui erano preda i suoi guardiani — erano le sei di mattina — riuscì a gettare, inosservata, i pezzettini di carta da un finestrino aperto della vettura. Quella notte anche molte altre colleghe dell’ufficio erano state arrestate. Inizialmente Irena aveva pensato che i tedeschi avessero scoperto una delle loro cassette postali collocata in una lavanderia e che il gestore avesse fatto il suo nome, ma emerse ben presto dall’interrogatorio che i tedeschi, pur essendo a conoscenza di un’organizzazione per il salvataggio degli ebrei, non ne conoscevano né la sede, né la consistenza, né i componenti. L’uomo della Gestapo che interrogava era convinto di trovarsi di fronte auna piccola pedina dell’organizzazione: voleva i nomi e i recapiti dei responsabili! «Mi promisero che mi avrebbero liberata se avessi confessato tutto» (ibidem, p. 160).
Irena provò tuttavia stupore di fronte alla mappa particolareggiata delle denunce che la riguardavano. Alcune note biografiche riferiscono che Irena venne sottoposta a tortura perché parlasse, ma lei non ne fa cenno. Certamente i metodi della Gestapo sono noti, ma è possibile che questi non siano giunti a forme estreme, proprio perché, sapendo come le organizzazioni clandestine fossero compartimentate, si era diffusa la convinzione che Irena non potesse dare un contributo in questo senso. La sua «colpa», per la quale, come si è detto, era prevista le pena di morte, era quella di aver soccorso degli ebrei.
In carcere, tre settimane più tardi, Zegota le fece sapere che l’organizzazione avrebbe fatto il possibile per liberarla. Ciò le diede coraggio e speranza, pur rendendosi conto che c’erano ben poche possibilità.
Durante la detenzione, in attesa dell’esecuzione prevista, ma non ancora fissata, venne adibita al reparto lavanderia e fu testimone dell’efferatezza quotidiana cui adulti e bambini (i piccoli che erano incarcerati assieme alle loro mamme) erano sottoposti dal personale di custodia.
Il 20 gennaio 1944 Irena sentì fare anche il suo nome fra i trenta o i quaranta individui che quel giorno sarebbero stati giustiziati: «le sensazioni che si provano in questa circostanza non si possono descrivere; tutte le narrazioni che ho letto non riescono a dare conto di questa realtà» (ibidem, p. 165).
Mentre era in fila, in attesa, apparve un uomo della Gestapo che disse di avere l’ordine di condurla a un interrogatorio all’esterno del carcere. Fuori dal carcere, all’angolo della via, le disse: «sei libera, scappa!» (ibidem). Irena non capiva finché, con uno spintone, il poliziotto la gettò in terra, a lato della strada, e se ne andò. Entrata in una farmacia che era nei pressi, Irena fu soccorsa dalla proprietaria che le diede dei vestiti per sostituire la divisa del carcere e il denaro per il biglietto del tram. Ritornata a casa e riabbracciata la madre, fu raggiunta nemmeno un’ora dopo da una collega dell’organizzazione clandestina che le disse di andarsene di casa e di tenersi nascosta. Qualche giorno dopo le vennero recapitati nuovi documenti di identità.
Il suo salvataggio era stato organizzato direttamente dal vertice di Zegota: avevano corrotto alcuni poliziotti con un sacco (letteralmente: uno zaino!) di dollari; le SS corrotte, in seguito scoperte, furono perseguite per tradimento e inviate immediatamente al fronte.
Sedici mesi di solitudine
Per Irena Sendler fu come ritornare in un nuovo mondo in cui era sola: ufficialmente era stata fucilata; il marito era in un Lager, in Germania (dal quale non avrebbe più fatto ritorno), non poteva vedere la madre ammalata e non poteva avere alcun contatto con l’amministrazione municipale e tutte le altre sue conoscenze. Nonostante la sua nuova identità doveva dormire ogni giorno in un posto diverso (il suo unico bagaglio erano gli oggetti necessari per la sua toilette e un cambio di biancheria) perché era sempre ricercata dalla polizia. Se ne accorse lei stessa un giorno, quando,su un tram, dovendo mostrare i documenti alle SS che controllavano i passeggeri, vide che, sulla lista dei ricercati che i tedeschi tenevano in mano, figurava il suo nome. Qualche mese dopo morì la madre e la Gestapo si presentò al funerale per chiedere notizie della figlia; alla risposta che lei era stata giustiziata, in prigione, le SS replicarono furiosamente: «lo doveva essere, ma è fuggita» (ibidem, p. 169).
Per sedici mesi, fino alla conclusione del conflitto, Irena Sendler, con la sua nuova identità, fece tesoro del corso di crocerossina frequentato negli anni giovanili per collaborare con la Croce Rossa Polacca all’assistenza infermieristica nelle svariate occasioni che si succedettero in quei mesi (in modo particolare, nel corso della successiva rivolta di Varsavia e al momento della liberazione). In quei mesi la creatività e le conoscenze di Irena (in modo particolare quelle di Zegota) furono tutte indirizzate a rinvenire le risorse, in modo particolare cibo, per soccorrere la popolazione affidata alle loro cure. La vita, però, continuava a essere densa di pericoli. Un giorno in cui, grazie alle informazioni di una conoscente, avevano potuto mettere le mani su un ricco deposito di viveri (conservato nella cantina di una casa distrutta) che una famiglia benestante aveva messo da parte, dovette difendersi da un tedesco disertore il quale, concorrendo per la stessa preda e temendo di essere catturato, assestò un colpo di baionetta nella gamba di Irena. Purtroppo la ferita fece infezione e non c’erano medicine idonee; Irena, colpita da una forte febbre, rimase alcuni giorni tra la vita e la morte.
Struggente è il racconto dell’incontro con i bambini di 3-4 anni salvati dall’Armata Rossa all’ultimo momento, poco prima di seguire la stessa sorte delle madri — il forno crematorio — e affidati alla Croce Rossa di Varsavia perché si prendesse cura di loro. L’ospedale gestito dalla Croce Rossa fu trasformato in un nido e, proprio per le sue competenze di operatrice sociale, a Irena venne assegnato il compito di organizzare l’assistenza. Dice Irena che il problema non era rappresentato dal cibo, dai vestiti, per quanto necessari; questi bambini erano colpiti da nevrosi da Lager, non riuscivano a addormentarsi se non dopo essere stati presi in braccio, uno a uno, e cullati dolcemente. A una bambina che si chiedeva e chiedeva a Irena se la madre avesse sofferto molto nel forno crematorio, Irena, sconvolta ma cercando di apparire tranquilla, rispondeva assertiva: «No, perché Dio ha mandato il suo angelo custode a proteggerla» (ibidem, p. 186); nei giorni successivi questa stessa bambina le chiese di disegnarle un angioletto e Irena fece ciò di buon grado: «una delle mie esperienze più difficili» ricorderà in seguito (ibidem).
Alla fine del mese di gennaio del 1945 (la liberazione era avvenuta il 17 gennaio), Irena fu inviata dal Governo provvisorio a Lublino, per coordinare il Dipartimento assistenziale del Ministero della sanità. Qui, avendo saputo che uno dei responsabili di Zegota si trovava gravemente ammalato all’ospedale, lo andò a trovare e questi le disse: «la guerra è passata, ormai ce l’abbiamo fatta, abbiamo mantenuto il nostro impegno. Avrai un monumento in Palestina» (ibidem, p. 188).
Tra sociale e sanitario
Il 15 marzo 1945 fu chiamata a dirigere l’Ufficio sanità e assistenza del Comune di Varsavia: «Il lavoro era interessante ma straordinariamente difficile» (ibidem, p. 189), i cittadini ritornavano in una Varsavia distrutta: non c’era luce, né acqua, né fognature, si dormiva nelle cantine; il primo problema era quello di trovare il cibo e distribuirlo alla popolazione affamata. Il primo stipendio di un mese di lavoro di Irena fu una forma di pane. Ma a fianco di queste necessità ve n’era un’altra non meno importante: «mettere a punto un concetto di assistenza sociale». Non sentendosi abbastanza preparata su questo punto, si recò a Lodz a trovare la prof. Helena Radlinska, la pioniera del servizio sociale polacco, per avere il suo contributo specialistico. Il servizio sociale non interessava alle nuove autorità, più occupate a considerare la politicizzazione della società. Tuttavia cinque anni più tardi, di colpo, ordinarono a Irena Sendler di procedere alla chiusura di tutti i dieci centri della «Cooperazione societaria» — come erano stati chiamati dopo la guerra i distretti assistenziali — perché le relative competenze erano state suddivise fra tre ministeri. Sulla base della sua pluriennale esperienza, Irena cercò, vanamente, di convincere le autorità a rivedere questa decisione che contrastava con il principio che «la vita di tutti i giorni e i problemi esistenziali ad essa connessi riguardano l’intera famiglia» (ibidem, p. 213); così, nel 1950, dovette lasciare l’Ufficio assistenziale cittadino. In un primo tempo si occupò del settore degli invalidi di guerra, finché venne nominata direttrice dell’Ufficio centrale deputato all’ispezione delle istituzioni educative. Era un lavoro interessante ma che comportava continui spostamenti che mal si conciliavano con le sue esigenze familiari6 (nel frattempo si era risposata con un professore di storia — anche lui attivista socialista e conosciuto durante la Resistenza — e aveva due figli piccoli), così accettò volentieri di andare a dirigere una scuola professionale serale.
Ma anche questo per poco; la necessità di migliorare la formazione del personale infermieristico unicamente in mano al personale tecnico, sicuramente competente nel proprio campo ma non in quello delle tecniche formative, portò alla creazione di un settore per la preparazione didattica del personale sanitario che venne affidato alle cure di Irena Sendler. Il suo ultimo incarico prima del pensionamento — a cui fu costretta nel 1967 — fu quello di Direttrice del servizio di medicina scolastica presso il Ministero della Sanità.
Le vendette del regime
I suoi rapporti con il regime comunista furono sempre difficili. Fervente attivista del partito socialista polacco, si trovò senza volerlo nel partito comunista quando esso nel 1948 — d’autorità — aveva incorporato il primo. Ben presto la Sendler si rese conto che v’era ben poco in comune fra i due partiti: «prima della guerra socialismo non significava tanto una dottrina o un programma politico, quanto essere sensibili ai problemi sociali e rifiutare il culto della ricchezza». Era questo che le interessava, così restituì la tessera di aderente al Partito polacco dei lavoratori. Fu l’inizio di una serie di fastidi anche molto seri. Denunciata per avere dato protezione ad alcuni attivisti della Resistenza in seguito perseguitati dal regime, nel corso del 1949 fu sottoposta a ripetuti interrogatori da parte dell’Ufficio per la Sicurezza pubblica, che non si attenuarono neppure di fronte al suo avanzato stato di gravidanza. Il bambino che aspettava nacque prematuro e non sopravvisse che pochi giorni: «Fu una grande tragedia per me», ricorda Irena Sendler nella sua testimonianza7.
Diversi anni dopo scoprì che la sua sorte avrebbe potuto essere peggiore. La vedova del responsabile di quell’ufficio di polizia la andò a trovare e le riferì che, all’epoca, aveva casualmente sentito il marito che al telefono dava ordine di procedere all’arresto di Irena (durante lo stalinismo l’arresto equivaleva alla condanna a morte). Lo implorò di revocare l’ordine appena dato: lei era di origine ebraica ed era stata salvata dalla Sendler durante l’occupazione nazista; fortunatamente il marito le era affezionato e le diede ascolto.
Nel 1967, come accennato, Irena fu «messa a riposo». Le venne rinfacciato di aver mostrato soddisfazione per la vittoria di Israele in una delle sue guerre contro i Paesi arabi: l’antisemitismo, anche sotto il regime comunista, rimaneva molto presente. Per lo stesso motivo le verrà sempre impedito di recarsi in Israele al fine di ricevere ufficialmente la medaglia di «Giusta fra le nazioni» conferitole da Yad Vashem nel 1965 e piantare il «suo» alberello nel «Giardino dei giusti». Questo viaggio si realizzò solo nel 1983 quando ebbe anche la soddisfazione di incontrare parecchi di quei «bambini» che aveva contribuito a salvare durante la guerra.
Il pensionamento, però, non si confaceva a Irena. Chiese e ottenne di rimanere in servizio per occuparsi di una biblioteca scolastica: «volevo continuare ad avere a che fare con i giovani; ciò, per tutta la mia vita, è stato per me fonte di gioia, soddisfazione e gratificazioni» (ibidem, p. 215). Il suo pensionamento, effettivo, giunse così nel 1984, dopo aver avuto modo di aderire, nel 1980, al nuovo sindacato Solidarnosc, del quale condivideva pienamente gli ideali.
Alla caduta del regime anche il suo Paese poté finalmente tributare a Irena Sendler i riconoscimenti che le erano dovuti; così, il 10 ottobre 2003, le fu conferito l’Ordine dell’Aquila Bianca, la più alta onorificenza polacca, mentre il 14 marzo 2007 fu il Senato polacco a tributarle gli onori. Durante una speciale sessione della camera alta del parlamento, venne approvata all’unanimità una risoluzione in onore di Irena Sendler per aver salvato le vittime più indifese dell’ideologia nazista: i bambini ebrei. Il presidente polacco affermò che sarebbe stato giusto attribuirle il premio Nobel (e, in effetti, nello stesso anno Irena Sendler concorse, insieme all’ex vicepresidente americano Al Gore, per tale premio conferito poi a quest’ultimo). Impossibilitata, dalle sue condizioni di salute, a lasciare la sua residenza, inviò un suo messaggio per il tramite di Elzbieta Ficoswka, da lei salvata quando era bambina.
Un modello di ruolo professionale
Irena Sendler, tuttavia, di fronte a ogni riconoscimento si è sempre schermita insistendo nel dire di non aver fatto nulla di speciale: affermava di essere stata educata a credere che una persona, quando sta affogando, debba essere salvata senza guardare alla sua religione o alla sua nazionalità. Provava irritazione di fronte alla parola «eroina» e credeva piuttosto il contrario: continuava ad avere rimorsi di coscienza per aver fatto così poco. In particolare era ricorrente in lei la spiegazione di avere agito in questo modo in quanto educata al dovere di aiutare coloro che erano nella posizione più difficile: sotto l’occupazione nazista coloro che erano nella posizione più difficile erano gli ebrei, e tra di loro i più deboli ancora erano i bambini (recentemente, alla domanda se avrebbe fatto la stessa cosa anche per dei bambini tedeschi che si fossero trovati nella stessa situazione, rispose: «ovviamente!»). Il suo ruolo di operatrice sociale non aveva fatto altro che rafforzare questo suo senso del dovere solidaristico, mettendole a disposizione degli strumenti specifici per adempierlo.
La stessa posizione «minimalista» fu tenuta da Irena Sendler nel 2006, quando un rappresentante dell’IFSW — l’Associazione internazionale degli operatori sociali — si recò da lei per proporle il tributo d’onore che questa organizzazione voleva assegnarle per l’attività da lei svolta in favore degli ebrei perseguitati. Come riportato da Joachim Wieler, Irena esitò molto ad accettare l’onorificenza dell’IFSW, perché non si sentiva «eroina tra le eroine», ma semplicemente vicina alle vittime quando la loro vita era in pericolo; perché l’IFSW voleva onorarla? A una persona che, nella sua lunga vita, in così tante occasioni aveva manifestato un raro esempio di dedizione ai più bisognosi, la risposta poteva essere illustrata solo sommariamente:
Vorremmo che fosse conosciuta e riconosciuta non solo per ciò che ha fatto come operatrice sociale in relazione al passato, ma come una specie di modello di ruolo professionale per il futuro. Speriamo che il suo esempio possa aiutarci non solo a prendere decisioni più sagge ma a resistere quando vi sono collegate delle pressioni esterne. Lei ha dimostrato ciò che si può riuscire a fare anche in presenza di pressioni immense. Ha fornito un esempio del tutto ammirevole per gli operatori sociali e per qualsiasi altra persona. (Wieler, 2007, p. 115)
Finalmente Irena Sendler diede il suo consenso ma, non sentendosi in grado di recarsi a Monaco per ricevere personalmente l’onorificenza (da qualche anno era perlopiù costretta su una sedia a rotelle), venne rappresentata, ancora, da Elzbieta Ficowska nel suo ruolo di Presidente dell’Associazione dei Bambini dell’Olocausto in Polonia. Il 30 luglio 2006, a Monaco, alla seduta inaugurale del congresso IFSW, Elzbieta ricevette il diploma in rappresentanza della sua salvatrice.
Bibliografìa
Lepalczyk I. e Marynowicz-Hetka E. (2002), Helena Radlinska Ein Porträt ¡hrere Person und Ihrer Arbeit als Wissenschaftlerin, Lehrerin und «soziale Aktivistin». In S. Hering e B. Waaldijk (a cura di), Die Geschichte der Sozialen Arbeit in Europa (1900-1960), Wichtige Pionierinnen und ihr Einfluss auf die Entwicklung internationaler Organisationen, Opladen, Leske + Budrich, pp. 65-72.
Krzywicki L. (1929), Le service social en Pologne, in Première Conférence Internationale du Service Social, Paris 8-13 juillet 1928, vol. I, Paris, pp. 495-51 1.
Mieszkowska A. (2004), Matka Dzieci Holocaustu. Historia Ireny Sendlerowej, Muza SA, Warsaw, trad. in lingua tedesca, Die Mutter der Holocaust-Kinder. Irena Sendler und die geretteten Kinder aus dem Warschauer Ghetto, Deutsche Verlags-Anstalt, München, 2006.
Radlinska H.O. (1929), Les écoles de service social en Pologne, in Première Conférence Internationale du Service Social, Paris 8-13 juillet 1928, vol. II, Paris, pp. 78-87.
Valentino P. (2003), E Irena salvò 2.500 piccoli ebrei, «Corriere della Sera», 14 luglio.
Wieler J. (2007), A world out of balance: Working for a new social equilibrium. Reflections on the 18th World Conference and the 50th anniversary ofIFSW, «European Journal of Social Work», vol. 10, n. 1, March 2007, pp. 112-116.
Note:
Fonte: La rivista del lavoro sociale, Vol. 8, n. 3, (dic.e2008), p.429-444