1. /
  2. Strumenti
  3. /
  4. Biografie
  5. /
  6. Guido Calogero

Guido Calogero

di Gennaro Sasso

 

E’ difficile dire attraverso quali contatti, e quali conoscenze di persone e di opere, con la sua consorte Maria Comandini Guido Calogero avesse nel tempo maturato il proposito di dar vita a una scuola di assistenza sociale, quale fu quella che nell’immediato dopoguerra fu da loro fondata a Roma, e, con il nome Cepas, ebbe la sua sede in un antico palazzo del Comune di Roma, situato all’Aventino. Fino a quel momento Calogero era molto noto negli ambienti intellettuali italiani ed europei per essere, oltre che professore da molti anni nelle Università (insegnava allora Storia della filosofia nell’Università di Pisa), autore di importanti libri filosofici, che avendolo posto al centro di molti dibattiti, gli avevano garantita una posizione peculiare nella filosofia di quegli anni. Ma, si ripete, come fosse arrivato a maturare il proposito di dar vita a quella scuola, resta, in assenza di documenti e di memorie, un problema.

Era nato nel 1904 da padre messinese, Giorgio, che per anni fu professore di francese nei ginnasi licei, e da madre, Ernesta Michelangeli, di origine fra bolognese e marchigiana. Dal padre trasse assai presto la passione per le lingue moderne e per i viaggi; dalla madre che, figlia di Luigi Michelangeli, per anni professore di letteratura greca nell’Università di Messina, era stata la prima donna ad aver conseguito la laurea in quella Università con una tesi di argomento in quei tempi non consueto (trattava infatti della donna in Senofonte), ereditò invece una tendenza all’introspezione psicologica e al «gusto», come più tardi lo avrebbe definito, «dell’altruità», che non andarono disgiunti, allora e poi, da un vivo interesse per la poesia, che, in forme discrete e, per dir così, appartate, egli coltivò per tutta la vita, in varie lingue, il francese e l’inglese, oltre naturalmente l’italiano, ma il latino e il greco non esclusi. Fu in questo ambiente familiare, che il giovane Guido si formò bruciando, per così dire, le tappe. Precocissimo e versatissimo in tutte le materie scolastiche, egli dimostrò presto un autentico talento per quelle classiche, che naturalmente coltivò con studio intensissimo negli anni dell’Università. A tal segno, incerto allora fra le letterature antiche e la archeologia classica, divenne esperto nel greco che un suo articolo di filologia pindarica attrasse l’attenzione di Giorgio Pasquali, ossia del maggior grecista di quegli anni, il quale, trovandosi a Roma, lo andò a cercare all’Università per conoscerlo e incoraggiarlo a seguire su quella strada. La filosofia, che sarebbe stata poi l’argomento e la passione della sua vita, non era ancora, in quel momento, ciò che sarebbe stata di lì a poco; anche se era alla luce del!’ estetica di Benedetto Croce, che, fin dai tempi del liceo, con il suo compagno di banco Enzo Sereni, egli progettava di fare per le letterature antiche quel che il filosofo napoletano aveva fatto per quelle moderne. Non poteva tuttavia essere il suo professore di Filosofia teoretica, Bernardino Varisco, al quale più tardi avrebbe dedicato un libro molto acuto, il più idoneo a fargli nascere quella passione. E fu infatti l’incontro con Giovanni Gentile che, nel 1924 tornava all’insegnamento dopo la parentesi ministeriale, e anche furono le discussioni che egli allora sostenne con Ugo Spirito nei seminari di Storia della filosofia, che la fecero insorgere, e a quanto di filosofico era già in lui dettero una forma e una prospettiva. La leggenda dice che quando, avendolo di fronte per l’esame, gli chiese su quali testi si fosse preparato a rispondere, Gentile si sentì dire da Calogero che, per dirla nel gergo universitario, «portava» tutto Platone in greco; e la dimostrazione che egli dette di quell’asserzione fu tale che, da quel momento, di quel maestro egli divenne uno degli allievi prediletti, e, per la filosofia antica, certamente il primo. Così, con Gentile, Calogero si laureò nel 1925 con una tesi che divenne, due anni dopo, il suo libro su I fondamenti della logica aristotelica; e con quel titolo conseguì la libera docenza, che era perciò già un traguardo raggiunto quando egli partì per Heidelberg in seguito a una borsa di studio bandita dal Ministero per la pubblica istruzione. In quel periodo, pur interessandosi, com’era ovvio, della filosofia moderna e di quella contemporanea, i suoi interessi si mantennero prevalentemente nel campo della filosofia antica. Al libro già ricordato su Aristotele, si aggiunsero, fra il 1931 e il 1933, i fondamentali Studi sull’eleatismo, nei quali le sue qualità di interprete sottile e di provetto filologo si intrecciarono in una mirabile sintesi, che di quel libro fa ancora oggi un testo fondamentale. Tornato in Italia, vinse prima la cattedra liceale di Storia e filosofia, materia che insegnò per un paio d’anni al Liceo Tasso di Roma, mentre all’Università faceva, per incarico, lezioni di Storia della filosofia antica e i pomeriggi lavorava all’Enciclopedia italiana, che era allora diretta, come si sa, da Gentile; e quindi ottenne, per concorso, a Firenze nel 1931 e poi a Pisa nel 1934, la cattedra universitaria di Storia della filosofia, che fu la sua finché nel dopoguerra, dopo varie traversie, riuscì ad essere chiamato a Roma, dove insegnò, da ultimo, la Filosofia teoretica.

Con la stessa precocità e rapidità con cui si era formato come studioso della filosofia antica, Calogero delineò la sua fisionomia teoretica. Già nel 1925, prima ancora che il libro aristotelico fosse stato dato alle stampe, aveva delineato in due brevi scritti la filosofia che avrebbe, negli anni successivi, formato oggetto de La conclusione della filosofia del conoscere: una raccolta di saggi in cui erano affermati i tre principi fondamentali che poi sarebbero sempre rimasti al centro del suo pensiero: la critica della logica e della gnoseologia antica e moderna, la teoria dell’io come perenne presente, o punto di crisi, del passato e del futuro, la riduzione dell’alterità antologica in alterità etica. Fondamentale, in questo quadro era, per quanto attiene alla teoresi, il primo punto; che, in breve, può esser fatto consistere nell’affermazione dell’impossibilità, per il pensiero che costruisce la sua propria teoria, di esservi accolto come obiettivo e costitutivo elemento, e di essere quindi, come pensiero affermante, sempre al di qua della cosa affermata. E fondamentale, senza niente togliere all’importanza del secondo, era il terzo, che poteva essere inteso come un’esplicita conseguenza del primo. Caduto il mito dell’oggettività logica, gnoseologica e antologica, a dischiudersi dinanzi alla considerazione filosofica era, non più il mondo degli enti, ma quello degli altri, che l’io poneva dinanzi a sé come altrettanti problemi da impostare e risolvere nella luce della comprensione etica. Di qui, subito dopo La conclusione della filosofia del conoscere, che è del 1938, la pubblicazione de La scuola dell’uomo, che è del 1939, e che per molti anni fu forse il libro più rappresentativo di Calogero: il documento e la testimonianza non solo del suo pensiero etico e delle sue tesi sulla storia, il diritto, e la politica, ma della sua decisione di combattere contro la dittatura fascista per l’instaurazione di un regime ispirato alle idee del liberalsocialismo, che fu delineato fra il 1940 e il 1941.

 Il passaggio dalla pura riflessione teoretica, e dall’indagine dei problemi logici e gnoseologici, alla prospettiva delineata ne La scuola dell’uomo, era stato reso possibile non solo dal determinarsi delle sue idee politiche, ma dallo studio che, alla metà degli anni trenta, Calogero aveva intrapreso del diritto. Che l’interesse per il mondo delle leggi si fosse già, almeno in parte, formato attraverso le analisi dedicate a Platone e ai sofisti antichi, è vero; e di ciò il documento si trova, a tacer d’altro, nell’importante sua Introduzione al Critone, dove la questione della legge, del suo carattere obbligatorio per chi l’avesse liberamente sottoscritta era affrontata non senza impliciti riferimenti alla situazione di chi, in Italia, si trovava a dover contemporaneamente difendere i valori della legalità rivendicando, al contempo, quelli della libertà calpestata dal fascismo. Ma la riflessione sul diritto non avrebbe mai raggiunto il grado a cui viceversa Calogero la innalzava se non fosse stato per una circostanza personale ed esistenziale che conferì a quella una spinta particolare. Alla metà degli anni trenta, sebbene poco più che trentenne, Calogero era un affermato professore universitario, godeva in Italia di ampia notorietà, intratteneva rapporti con gli ambienti della filosofia e della cultura internazionale. Era, come si suoi dire, un uomo affermato nel suo campo: e non avrebbe avuto ragione di ritenere che la sua situazione potesse cambiare, esponendo a qualche rischio lui e la sua famiglia. Ma quelli erano tempi di oppressione politica; e poiché sempre più si stava decidendo per l’azione antifascista, così l’ipotesi che da un momento all’altro la sua situazione potesse cambiare e il regime lo privasse, per esempio, della cattedra universitaria, non era così remota che non dovesse più volte passargli per la testa. Così avvenne che, all’improvviso, ma in realtà dopo averci ben pensato, egli si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena allo scopo di conseguirvi la laurea in modo da poter esercitare l’avvocatura nel caso che il peggio si fosse avverato e della cattedra fosse stato privato. Nella famiglia Comandini c’erano almeno tre avvocati presso il cui studio, uno a Roma, gli altri due a Cesena, egli avrebbe potuto cominciare a svolgere questa attività. E questa circostanza certamente favorì la sua decisione, per la quale accadeva che un professore ordinario in una Facoltà diventasse studente in un’altra. La tesi con la quale egli si laureò nel 1936 o 1937 divenne in questo anno un libro, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, che era per due ragioni un libro tecnico e di duplice, quindi, difficoltà. Da una parte infatti riprendeva la critica che già nel 1927 aveva rivolte alla logica aristotelica, distinguendovi il momento della noesi o dell’appercezione immediata e unitaria dall’oggetto dal suo svolgimento dianoetico in termini di soggetto, predicato e di sillogismo; e quindi la riferiva al procedimento giudiziale della Cassazione che, come organo preposto al controllo logico delle sentenze emanate nei precedenti gradi di giudizio, proprio a quella logica si ispirava per il suo lavoro. Il libro, come si è detto, era doppiamente tecnico, sebbene molto appassionante per chi si fosse interessato a quei procedimenti mentali. Ma, al di sotto di questo piano, ne nascondeva, o, si preferisce, ne lasciava trasparire un altro, che riguardava la natura del diritto: cioè il modo in cui Calogero lo intendeva e lo interpretava in relazione non solo alla filosofia dei giuristi, ma anche a quella dei filosofi (Croce e Gentile innanzi tutto) discutendo con i quali aveva definito il suo modo di pensare. Essenzialmente, il diritto era per lui il principale strumento per la formazione e la difesa della giusta società: non ciò che si deduce dalla cosiddetta legge di natura e dalla ratio che vi si esprime, ma una costruzione innalzata dalla volontà, anzi dalla buona volontà, orientata a proteggere e garantire il diritto di tutti in un quadro, potrebbe dirsi, in cui non ci fosse posto per gli oppressori e, naturalmente, per gli oppressi, in un quadro, in altri termini, liberale e democratico, ispirato alla giustizia. Le conseguenze generali di quel che era stato pensato ne La logica del giudice passarono di lì a poco ne La scuola dell’uomo, e poco più tardi nel secondo volume delle Lezioni di filosofia, dedicato all’Etica; e lì, soprattutto in quest’ultimo, le questioni del diritto, dell’etica, e della giusta società, assunsero la loro dimensione sociale determinandosi secondo la prospettiva liberalsocialista che Calogero aveva elaborata negli anni del fascismo quando la resistenza alla sua tirannide aveva assunto le forme della cospirazione, ed egli aveva conosciuto il carcere e il confino di polizia. Pubblicate fra il 1946 e il 1949, subito dopo la liberazione, comprensive, oltre che della già ricordata Etica, di una Logica e di un’Estetica, le Lezioni di filosofia offrirono il quadro di un sistema in cui l’ispirazione morale si rivelava dominante: come, del resto, sarebbe stato di lì a poco dimostrato dalla teoria che nel 1950 egli propose del dialogo, inteso come teoria dell’indiscutibilità del dover discutere la stessa indiscutibilità, e volto a tracciare con maggior rigore i principi della libertà, della democrazia e del laicismo. Nella frenetica attività che lo impegnò nei primi tempi del dopoguerra trovò posto anche la questione del servizio sociale, o, più precisamente, della formazione di coloro che avrebbero dovuto operare nei servizi. Una questione che, per un verso, era implicita, ma con forti caratteri, nel suo stesso pensiero, dal quale, per dir così, la ricavava; ma che è pressoché certo che non sarebbe stata definita con la concretezza, oltre che con la precisione, che la caratterizzarono, se non fosse stato per il decisivo apporto che al suo chiarimento dette Maria Comandini che fu per molti anni la principale ispiratrice della scuola che fu fondata sull’Aventino. La questione che al riguardo si pone, e che attende chi la studi nei documenti che permettano di ricostruirne la genesi, è dove e quando, negli anni in cui quel progetto cominciò a formarsi e a maturare, Calogero e Maria Comandini trovarono, non solo il tempo, ma anche il modo, di attingerlo alle fonti, prevalentemente anglosassoni, di quel progetto di impegno sociale. Il famoso Convegno internazionale che, nel 1946, riunì a Tremezzo, per tre settimane, uomini di cultura ed esperti di tutti i settori del lavoro sociale, italiani e stranieri, sarà stato certamente d’importanza essenziale per entrambi, che lì poterono maturare e rendere più concreta nella loro mente l’idea di una scuola per assistenti sociali, attingendola all’esperienza dei molti inglesi e americani che a quel Convegno partecipavano. Ma, sia nata o no a Tremezzo, è certo che l’idea di una scuola per assistenti sociali si formò in loro nel vivo di un’esperienza politica che, sia nel periodo della clandestinità sia, e soprattutto, in quello successivo, trovò il suo centro nell’idea della democrazia. La quale, per Guido Calogero e Maria Comandini, significava che questa forma politica aveva certamente la sua dimensione fondamentale nella libertà di pensiero e di espressione; ma proprio per questo richiedeva che questa significasse innanzi tutto indipendenza dalle istituzioni che, fossero benefiche o criminali, nelle zone del sottosviluppo assicuravano, e assicurano, le condizioni elementari del vivere implicando soggezione se non, addirittura, asservimento. Comune a entrambi era l’idea che il realizzarsi della giustizia sociale, e con questa della democrazia, richiedeva la presenza di professionisti capaci di operare in modo che anche chi mai aveva partecipato alla vita politica fosse aiutato a entrarvi e a farvi sentire la sua voce. L’idea calogeriana degli operatori sociali implicava perciò che la formazione di questi andasse di pari passo con l’istituzione dei servizi. E, certo, fu quel che Guido Calogero e Maria Comandini avevano appreso dai libri a determinare durante il periodo del fascismo le loro idee sul modo di essere delle democrazie occidentali. Ma fu l’esperienza, dapprima indiretta, della democrazia americana e delle grandi riforme che in Inghilterra, subito dopo la fine della guerra, erano in via di essere introdotte dal governo laburista di Clement Attle, a mettere ulteriormente in moto le loro idee. A persuaderli che quella fosse la strada e che, se quel problema non fosse stato almeno impostato nelle grandi linee, la democrazia non sarebbe riuscita a mettere in Italia salde radici, fu, per altro, soprattutto l’esperienza che entrambi fecero degli ambienti in cui in concreto la politica si svolgeva; fu soprattutto la presa di coscienza, attraverso il diretto contatto, delle arretrate condizioni del sud, a far loro toccare con mano che, se non si fosse provveduto a introdurvi profonde riforme, ancora e sempre quello sarebbe rimasto nelle mani della Chiesa cattolica, unica protagonista fino ad allora dell’assistenza ai poveri e agli emarginati, quando non delle associazioni criminali. Gli operatori sociali avrebbero, nella loro visione, dovuto essere strumenti di liberazione da antiche dipendenze sentite come altrettanto ineluttabili dei poteri che le determinavano e esigevano. E anche per questo, non solo Calogero, ma anche e soprattutto Maria Comandini, sempre insistettero sulla necessità che la formazione degli assistenti sociali fosse la più larga possibile, e che essi dovessero sapere non solo di diritto, economia, urbanistica, sociologia, ma anche di cose umanistiche, perché la mente dev’essere nutrita, se si vuole che si specializzi bene, di quel che si sia pensato nell’ampio regno della humanitas. E a contatto con quelle esperienze l’idea laica, che sempre era stata presente nel pensiero di Calogero, anch’essa si rafforzò, facendo di lui uno dei suoi massimi campioni di essa, presente e attivo nelle battaglie combattute per una nuova scuola come, per esempio, per l’abolizione del concordato e in molte altre di consimile ispirazione. Allo stesso modo, i lunghi soggiorni che entrambi fecero nel Canada, negli Stati Uniti, in Inghilterra dettero a entrambi occasione di osservare, di studiare, di imparare meglio, se si vuole, quel che già era stato da loro appreso; ed è questo il punto interessante, sul quale occorrerebbe riflettere e fare ricerche.

Per lunghi anni la scuola Cepas fu un laboratorio di idee a cui, ciascuno nel suo campo, contribuirono molti dei nomi più prestigiosi della cultura italiana; e se non fu ispirata a una specifica ideologia politica, se vi convissero personaggi che avevano idee diverse anche se convergenti su alcuni punti essenziali, non deve credersi che non avesse i suoi critici e avversari. Per il suo effettivo laicismo, e per la molteplicità delle esperienze che vi ·si realizzavano, la scuola suscitò preoccupazione e sospetto in varie gerarchie: in quella cattolica (sebbene molti cattolici insegnassero in essa) e in quella comunista (sebbene anche qui fosse notevole la presenza didattica di uomini di quella parte politica). Per suo conto, nella scuola Cepas Calogero insegnò soprattutto, si potrebbe dire, la democrazia, insistendo non solo sulle implicazioni filosofiche del concetto, ma anche sul suo «metodo», sul rispetto dei tempi e dei modi, sulle regole, insomma, che non sono mai cosa estrinseca, perché rispettarle significa rispettare la persona che si ha di fronte, facendo prevalere la forza del diritto sul diritto della forza, e la persuasione sulla violenza.

 

Bibliografia di Guido Calogero sul servizio sociale a cura di Maria Stefani

“ABBICCI della democrazia”

Il Filo di Arianna – Colombo Editore – Roma 1946

“Per la formazione di quadri assistenti sociali. Il prof. Calogero direttore del nuovo Centro precisa gli obiettivi ed i fini del corso.” in Riscatto d’Italia- Settimanale del reduce, domenica l dicembre 1946

“Compiti e preparazione dell’assistente sociale. Prolusione ai corsi di educazione professionale per assistenti sociali” in Rivista Internazionale della Protezione Sociale, n. II, 1947

“Che cosa fanno gli assistenti sociali?” in L’Italia socialista, 12 febbraio 1948

“Relazione sul primo anno di attività del CEPAS” in Quaderni sociali (a cura del servizio studi e pubblicazioni dell’INAIL) n. s, 1948

“Protezione sociale e servizio sociale” in Rivista Internazionale di Protezione Sociale, n.4-5-6, 1948 (Atti del Congresso nazionale di protezione sociale, 23 -28 febbraio 1948, Roma)

“Assistenti sociali” voce dell’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1948

“Lo spirito della resistenza e il servizio sociale” in Centro Sociale, n.2, marzo – aprile, 1955

“Comunicazione sul!’ insegnamento di morale, religione, filosofia” in Il seminario nazionale di servizio sociale. AAAI Fregene 23 -31 ottobre 1961

“Il servizio sociale in una democrazia moderna” in Notizie Olivetti, n.74, 1962

“Perché è nato il CEPAS. Alcuni scritti di Guido Calogero.” in Centro Sociale, XXIY, n.136 -138, luglio- dicembre 1977

 

Fonte:La Rivista di Servizio Sociale A.50, n. 1 (APRILE 2010) p.57/63

INSERTO SOSTOSS – SOCIETA’ PER LA STORIA DEL SERVIZIO SOCIALE

Per informazioni, suggerimenti o richieste sul progetto contattaci all'indirizzo mail: info@memoriesociali.it