«La giustizia con il cuore» di Bruno Bortoli – Università Cattolica di Milano
Gisela Peiper Konopka (11 febbraio 1910 9 dicembre 2003)
Sono una persona a cui sarebbe piaciuto essere molte cose. Avrei voluto essere un medico? Sì, avrei voluto, ma… Una psichiatra? Sì, ma… Un’insegnante? Sì, ed effettivamente lo sono. Avrei voluto essere avvocato? Oh sì, l’avrei voluto. [Ma] poi, penso che il lavoro sociale sia una professione che comprende molti aspetti di ciò che avrei voluto fare; allo stesso tempo, mi permette di fare molto altro, che quelle professioni non mi permetterebbero. (Gisela Konopka, intervento al Meeting della National Association of Social Workers, nel 1959, cit. in AndrewsSchenk, 2005, p. 135)
Introduzione
Riuscire a condensare in poche pagine una biografia importante è sempre complicato, ma lo è ancora di più nel caso della vita e delle opere di «Gisa» Konopka di cui ci apprestiamo a ricordare il centenario della nascita. Ogni fase della sua vita — l’infanzia fra gli ebrei di Berlino, la sua adolescenza nel movimento giovanile tedesco, la resistenza al nazismo, la persecuzione del regime e l’esilio, la sua azione di mediazione nelle tensioni razziali e nella protesta studentesca degli anni Cinquanta e Sessanta, la straordinaria carriera professionale a livello nazionale e internazionale come organizzatrice di servizi, come storica, come teorica, come formatrice — si collega a momenti significativi della storia del Novecento, e appare caratterizzata da un contesto originale nel quale lei ha sempre agito con grande coerenza, intelligenza e impegno. Una testimonianza eccezionale, la sua, nel perseguimento di un unico ideale:
Per tutta la vita ho combattuto per la giustizia e per il rispetto di tutte le persone. Detesto ogni arroganza collegata alla razza, alla religione, alla nazionalità, al modo di apparire, al sesso, all’età, all’intelligenza, all’occupazione e al denaro.Questa arroganza è sbagliata. Ciò che è importante è quello che la persona è e fa per la comunità. (Cit. in Lewin Rhoda, 2009)
In questo articolo cercheremo di mettere in luce l’originalità del suo contributo al Lavoro sociale, che partiva dal considerare il social group work come la forma che incarnava, al meglio, la filosofia sociale di riferimento e la modalità più efficace di perseguire le finalità dell’azione sociale. La concezione di Gisela Peiper Konopka si inseriva nella prospettiva storica — da Jane Addams passando attraverso il contributo di Eduard Lindeman — che riconosceva come buone pratiche professionali di Lavoro sociale tutte le attività che integravano l’interesse per l’individuo e il gruppo con l’interesse per l’azione politica.
Considerava del tutto irrilevanti le diatribe tra «micro» e «macro-interventi». A un certo punto della sua vita decise di non parlare più di lavoro di gruppo, ma di focalizzarsi su coloro che soffrono e di favorire l’adozione di un approccio interdisciplinare, con tutte le difficoltà e le incomprensioni che questo comportava.
Una ragazza ebrea nei movimenti giovanili di Berlino
I genitori di Gisela (o Gisa), Mendel Peiper e Bronia Buttermann, erano ebrei di origine polacca, arrivati a Berlino — un luogo che, nei primi anni del Novecento, era il miglior posto dove potesse vivere un ebreo — per sfuggire alle persecuzioni antisemite e per gestire una piccola drogheria kosher. Nonostante le condizioni di vita modeste, Gisela e le sue due sorelle frequentarono gli studi superiori e vissero la giovinezza immerse nei libri dei quali la madre era appassionata lettrice. La crescita intellettuale di Gisela fu influenzata anche dall’impegno per il socialismo, che il padre coniugava con il profondo attaccamento ai costumi e ai riti ebraici. Gisela si sentiva attratta dal socialismo per il senso di giustizia che richiedeva a fronte di una diffusa disuguaglianza sociale.
La partecipazione di Gisela ai movimenti giovanili rafforzò il suo amore per l’arte, in particolare quella religiosa, senza distinzioni tra cristiana, islamica o ebraica. Era una grande ammiratrice di Käthe Kollwitz1, che rappresentava ciò che la giovane Gisa avrebbe voluto diventare: una radicale, il cui interesse era rivolto alla condizione del povero, che si opponeva alla guerra, allo sfruttamento e alla discriminazione. Gisa — anche se, più tardi, si dedicò al disegno a carboncino — non aveva le abilità artistiche della Kollwitz, ma desiderava sviluppare un’analoga passione e devozione verso coloro che non erano trattati con dignità umana.
La scelta di partecipare a un gruppo giovanile, in quegli anni, era tipica degli studenti o dei giovani impegnati, ma per Gisa non fu facile. I suoi cugini appartenevano a un’organizzazione sionista2 (la sorella maggiore, Anna, sposerà uno di questi esponenti e andrà a vivere in Palestina), ma Gisa, essendo pacifista, non condivideva l’interesse per la creazione di un Paese che avrebbe dovuto combattere aspramente per conquistare e difendere i suoi confini.
La ragazza scelse, infine, di partecipare a un gruppo giovanile ebraico, che apparteneva a quel complesso di associazioni passato alla storia come Jugendbewegung. Con questo termine si identifica un vasto movimento di rinnovamento culturale e educativo che ebbe inizio nel 1896 e che si componeva di una miriade di associazioni giovanili la cui attività si svolgeva all’aria aperta. La sua componente più nota era quella dei Wandervögel («uccelli migratori»): dedita all’escursionismo e caratterizzata da una romantica ricerca di un ritorno alla natura, questa corrente rifiutava nettamente la società borghese e l’imperialismo. In quegli anni si erano sviluppati movimenti simili in diversi Paesi d’Europa. I ragazzi che vi partecipavano vestivano in modo semplice, con sandali e abiti larghi, e le ragazze si adornavano i capelli con nastri e fiori; suonavano, cantavano, scrivevano poesie e non assumevano alcol (la «bevanda della borghesia»). I gruppi possedevano una chiara struttura di leadership giovanile, in opposizione alle rigide e stantie regole familiari e sociali: questo faceva presa sui giovani delle classi medie, attratti da un diverso modo di relazionarsi.
All’interno di questo movimento Gisela sperimentò, per la prima volta, sia le positive influenze delle dinamiche di gruppo sia le esperienze negative derivanti dall’ascesa del nazismo al potere.
Dopo la prima guerra mondiale, i Wandervögel e le organizzazioni scoutistiche si fusero, contribuendo a rendere il movimento ancora più unitario. Purtroppo, con l’imperversare del nazionalsocialismo, una parte delle caratteristiche di questo movimento — ad esempio, il rifiuto della società tradizionale, le modalità di organizzazione e l’attività sportiva — furono utilizzate nella costruzione della componente giovanile del partito nazista. Si persero però tutti quegli elementi tipici del movimento originario che miravano al superamento delle barriere culturali e politiche e al riconoscimento di tutte le persone nella stessa umanità.
Lavoro, amore e università durante l’ascesa del nazismo
Le esperienze che Gisela fece da adolescente ebbero un impatto durevole su di lei, determinando il suo desiderio di un mondo pieno di amore e libertà. Da adulta integrò la sua esperienza adolescenziale con l’insegnamento in una prospettiva antiautoritaria: «ai bambini non dovrebbe essere insegnata l’obbedienza, ma la gentilezza» (cit. in Andrews-Schenk, 2005, p. 14). Per lei — che aveva provato sia l’autoritarismo tradizionale della società di inizio Novecento sia quello, ben peggiore, del nazismo — niente era meglio dell’autodeterminazione dei propri diritti, rispettosa però dell’analogo diritto in capo alle altre persone.
Come formatrice, non si stancava di ripetere che agli adolescenti dovevano essere attribuiti dei ruoli significativi, che li facessero sentire importanti. Lei ve-deva l’adolescenza come il «fiorire di ogni cosa». È per questo che, sul finire degli anni Sessanta, applaudiva in modo convinto i movimenti giovanili che andavano alla ricerca dell’amore e della pace, per quanto disapprovasse il loro uso di alcol e di droghe.
Ma torniamo alla giovinezza di Gisela: dopo il diploma di Maturità — ottenuto a pieni voti nel 1928 — la ragazza scelse di frequentare l’università ad Amburgo, anche per il desiderio di vivere in un ambiente diverso da quello di Berlino. Tuttavia, un anno prima di iscriversi all’università, decise di lavorare sia per il desiderio di condividere la sorte delle classi più umili sia per acquistare una certa autosufficienza. L’esperienza del lavoro in fabbrica costituì per Gisela un importante banco di prova: fu licenziata a causa del suo attivismo sindacale, visse sulla sua pelle la disoccupazione e la ricerca di un nuovo impiego, ma ebbe anche la possibilità di confrontarsi con l’attività intellettuale di cui si interessava. Da questa esperienza emerse il desiderio di diventare insegnante e di lavorare con i figli degli operai.
In questi anni conobbe, all’interno dei movimenti giovanili, l’amore della sua vita: Paul (Erhardt Paul Konopka, 1906-1976). Paul — un abile artigiano, attivista politico e sindacale — era molto diverso da lei per alcuni aspetti (non era ebreo, apparteneva a una famiglia molto umile, non era colto), ma condivideva con Gisela una forte passione per la giustizia e la libertà. Il comune impegno a condurre una vita coerente con i valori della solidarietà li aiutò a superare le numerose separazioni inflitte dalle vicende della vita e li accompagnò fino a quando, fuggiti dal nazismo, poterono ricrearsi una nuova patria negli Stati Uniti.
Nel 1929 Gisela formalizzò la sua iscrizione all’Università e studiò storia, filosofia, psicologia e pedagogia. È proprio sull’interesse verso quest’ultima disciplina che si innesterà — dopo l’emigrazione in America — il desiderio di Gisela di studiare il Lavoro sociale. In quegli anni, il Lavoro sociale
in Germania non era una professione, era senza status, senza significato come qualche cosa che non meritava di essere praticato da chi aveva un background politico e intellettuale, era un’occupazione secondaria. (Cit. in Andrews-Schenk, 2005, p. 25)
In generale, si indirizzavano verso questa attività solo coloro che non erano all’altezza di dedicarsi agli studi universitari. Gisela ricordava in modo vivido l’antipatia provata per un’operatrice sociale — severa e insensibile — che entrava nel negozietto di famiglia, assieme ad alcuni poveri, per accompagnarli nell’acquisto di beni essenziali attraverso dei buoni.
Quando Gisela stava concludendo i suoi studi universitari, avvenne ciò che lei e Paul avevano tanto temuto: l’ascesa al potere di Hitler. Già negli anni precedenti era evidente quanto la propaganda e la demagogia naziste facessero presa sui concittadini frustrati e immiseriti. Ciò che colpiva Gisela era la quantità di gente che si avvicinava e aderiva al nazismo per paura o per conformismo, nella speranza — mal risposta — che sarebbe passato in fretta e che tutto sarebbe tornato come prima. Certo, vi erano anche persone entusiaste del nuovo movimento, come una sua compagna di corso che le confidava di essere in grado di riconoscere un ebreo dal suo odore. Per Gisela, in fin dei conti, nessuna scelta era possibile: essendo ebrea, era già esclusa in partenza. Per lei, non più praticante, questa identità divenne così ilsimbolo di un’altra delle ingiustizie che la società infliggeva ad alcune persone, ma che, come ogni altra ingiustizia, doveva essere combattuta.
Nel febbraio del 1933 un ufficiale di polizia si recò nella stanza della ragazza e Paul, che in quel momento era con lei, fu invitato ad andarsene. Iniziò così un interrogatorio di diverse ore su ciò che facevano lei e i suoi amici. Lei tergiversò e negò; non fu arrestata, ma capì di essere nel mirino. La stessa cosa avvenne la sera prima della sua laurea, quando i poliziotti perquisirono a lungo la sua stanza alla ricerca di materiale proibito. Se ne andarono portando via parecchi libri, compresi quelli di arte moderna, a lei cari, che però riguardavano una disciplina considerata «degenerata» dal regime. Nonostante ormai Gisela si aspettasse l’arresto, fu lasciata in libertà e così, dopo una notte insonne, si recò al suo esame finale che superò brillantemente, laureandosi con lode.
La resistenza al regime nazista e l’esilio
Il desiderio di Gisela di dedicarsi all’insegnamento fu immediatamente frustrato: i nazisti, appena giunti al potere, impedirono agli ebrei di insegnare o di svolgere un’attività professionale. Non potendo esercitare alcuna professione, Gisela si manteneva dando lezioni private, lavorando occasionalmente in un asilo d’infanzia e facendo le pulizie. Quest’ultima sara l’attività principale di Gisela per gli otto anni successivi e la donna vi si abituerà talmente tanto che, quando arriverà negli Stati Uniti come rifugiata, indicherà come occupazione «donna delle pulizie».
Gisela e Paul erano impegnati nel movimento di resistenza promosso dal partito socialdemocratico. Esso prevedeva qualche atto di sabotaggio ma, per lo più, si realizzava attraverso la diffusione, di nascosto, delle idee antiregime e attraverso l’aiuto a chi desiderava fuggire dalla Germania. Gisela e Paul, a causa di queste attività, erano costretti a lunghi periodi di separazione e si vedevano quasi soltanto di nascosto. Tra tutte le azioni ideate da lei e Paul, Gisela era particolarmente orgogliosa di una, messa in atto nel 1936 durante le olimpiadi di Berlino. Ai molti visitatori che giungevano ad Amburgo per assistere alle olimpiadi poteva capitare di trovare appiccicati sulla propria valigia dei biglietti con la frase: «La tranquillità della Germania è la tranquillità del cimitero». Le etichette adesive erano un «brevetto» di Paul. Lo slogan informava questi visitatori che in Germania vi erano delle persone contrarie al regime imperante.
Un giorno dello stesso anno Paul fu avvertito che era ricercato dalla Gestapo e l’organizzazione lo aiutò a espatriare in Francia. Gisela seppe che l’operazione di espatrio era giunta a buon fine grazie a una parola d’ordine concordata in anticipo.
Il 18 dicembre 1936, di ritorno ad Amburgo, Gisa fu arrestata dalla Gestapo. Incarcerata, venne sottoposta a estenuanti interrogatori, in cui negò ogni conoscenza circa l’attività e gli esponenti del movimento clandestino. La donna ormai si aspettava di rimanere per sempre a Fuhlsbüttel, uno dei nuovi campi di concentramento che il regime aveva creato nei pressi di Amburgo per i soggetti indesiderabili come lei. Dopo quattro settimane di interrogatori, invece, Gisa fu rimessa in libertà. Probabilmente la speranza della Gestapo era che lei, una volta liberata, si recasse da qualche esponente della resistenza, così da aiutare involontariamente la polizia a rintracciare altre persone del movimento. Gisela si recò invece dalla madre, che viveva da sola: il padre era morto l’anno precedente e le sorelle erano emigrate in Inghilterra e in Palestina. Gisela aveva paura che la madre venisse perseguitata a causa sua e quindi la convinse a raggiungere la sorella che abitava a Tel Aviv. Gisela, anche grazie all’aiuto della sua rete clandestina, riuscì a vendere il negozietto della famiglia e i loro pochi averi, così sua madre poté partire. Gisela, che era stata privata del passaporto, riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia con la scusa di un ciclo di cure termali a Karlsbad, per le quali l’espatrio era permesso senza troppe formalità. Da lì il movimento clandestino la fece passare in Austria con un passaporto «vero», acquisito però a caro prezzo: Gisa aveva dovuto accettare un matrimonio di facciata con un membro del gruppo. In Austria Gisa continuò l’attività clandestina assieme a un’amica, correndo continuamente il rischio di essere intercettata. Dopo che l’Austria venne annessa al Reich, Gisela dovette partire di nuovo. Grazie alla sua rete riuscì a espatriare in Francia, dove svolse lavori occasionali e dove — pur nell’amarezza dell’esilio — ebbe la possibilità di rimanere in contatto con il fidanzato.
L’arrivo negli Stati Uniti e l’incontro con il social group work
Dopo l’occupazione della Francia da parte dei nazisti, Gisa e Paul si trasferirono nella regione francese del Midi, a Montauban. Qui incontrarono diverse difficoltà derivanti dal regime collaborazionista: ad esempio, il sindaco si rifiutò di celebrare il loro matrimonio perché un’ebrea non poteva sposare un uomo che non lo era. Tuttavia, grazie alla viva solidarietà di alcuni abitanti del posto, i due giovani trascorsero, senza essere arrestati, i mesi che occorrevano affinché fosse portata a termine la trafila necessaria per farli riparare negli Stati Uniti. Infatti, alcuni membri della rete clandestina, già rifugiati negli Stati Uniti, avevano stilato un elenco di coloro che, in Europa, erano maggiormente in pericolo per la loro attività contro il nazismo: Gisa e Paul erano tra quelli.
Nel 1941, a qualche mese di distanza l’uno dall’altra, i due giovani si imbarcarono a Marsiglia. Quando Paul ebbe raggiunto Gisela, i due si sposarono, a New York, davanti a un giudice di pace. Un ricordo comico di quel giorno è l’imbarazzo del giudice di pace: Gisa e Paul capivano molto poco l’inglese e, non sapendo quando sarebbe stata formulata la fatidica domanda, continuavano a stringersi la mano e a ripetere «Yes» — anziché «I do», come previsto dalla formula — davanti allo sguardo perplesso del giudice.
I coniugi Konopka usufruirono dei progetti assistenziali previsti per i rifugiati, tra cui anche il sostegno nella ricerca di un’occupazione. Per Paul non fu difficile trovare un posto di lavoro, grazie alla sua qualifica professionale di artigiano. Per Gisela, invece, non c’erano posti disponibili come insegnante. La donna allora — superate le iniziali resistenze derivanti dai ricordi infantili — si iscrisse a un corso di recente istituzione, a Pittsburgh, per divenire social worker specializzata nel group work. Questo corso affrontava contenuti relativi alla democrazia partecipata e al mutuo aiuto e quindi Gisa aveva una preparazione di base più che adeguata, ritrovando gli ideali per i quali si era battuta fin dall’adolescenza. Tra gli insegnanti di Gisela c’erano Gertrude Wilson3 e Grace L. Coyle4.
Il lavoro sociale di gruppo aveva cominciato a essere percepito come un possibile campo professionale in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante gli anni Venti. Esso era un’evidente emanazione del movimento dei Settlement e dell’impegno per le riforme sociali.
I riferimenti teorici erano principalmente quelli di John Dewey, che, attraverso la sua pedagogia progressiva, sosteneva l’importanza di animare la ricreazione in piccoli gruppi, e di Mary Parker Follett, che era fortemente convinta che i cittadini, agendo in gruppo, potessero risolvere molti problemi che emergevano nelle loro comunità.
Nel 1935 la National Conference of Social Work aveva creato una sezione dedicata al group work: ciò favorì una crescente identificazione di questa attività con il Social Work, fino ad allora orientato quasi esclusivamente al casework. Già nel 1944 si precisava che il group work non era una professione a sé, ma una delle specializzazioni all’interno della professione del lavoro sociale (Andrews, 2001, p. 50). Ciò venne sanzionato ufficialmente da Grace Coyle alla NCSW del 1946, che affermò che «il groupwork era un “metodo” del Social Work» (Coyle, 1947, p. 202). I problemi aperti, comunque, erano molto numerosi su diverse questioni: per quanto riguardava la natura composita del lavoro di gruppo (attività ricreative, eventi sociali, attività comunitarie, mutuo aiuto); i suoi ambienti di lavoro (soprattutto non istituzionali, con una scarsa formalizzazione degli orari e delle condizioni lavorative per gli operatori); la natura degli operatori stessi (non necessariamente diplomati, comprendenti animatori ricreativi, volontari, operatori di strada e così via). Come ricorderà più tardi la Konopka in un’intervista del 1988, promossa dalla NASW per raccogliere le testimonianze dei pionieri della professione:
Non si trattava solo di parlare ma anche di dipingere, di giocare […] non era solo un metodo che poteva essere insegnato quanto una filosofia che apriva le porte. (Cit. in Andrews, 2001, p. 50)
Ciò contribuiva ad alimentare la diffidenza delle caseworker, che continuavano a ritenere il group work poco serio o poco intellettuale.
Tra lavoro e formazione, una nuova casa nel Minnesota
Ottenuto il suo diploma, Gisela trovò lavoro come operatrice psichiatrica di gruppo alla Child Guidance Clinic di Pittsburgh. Nel frattempo, dopo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti nel 1941, Paul fu arruolato e, alla fine dell’estate del 1942, venne inviato in Europa dove la conoscenza del tedesco e dei luoghi lo rendeva una pedina preziosa. Poche settimane prima della fine della guerra, Paul ottenne il congedo per stare vicino alla moglie, che era caduta in una profonda depressione, alla quale forse aveva contribuito il timore per la sorte del marito. I diari di Gisela e le sue biografie testimoniano la ricorrenza di questi stati depressivi, uniti a forti disturbi del sonno, che accompagnarono la donna per quasi tutta la vita.
Sul piano professionale, comunque, Gisela si fece apprezzare precocemente anche per alcuni articoli pubblicati sulle riviste professionali. Nel 1946 poté presentare un contributo alla National Conference of Social Work di Buffalo relativamente alla sua esperienza presso la Clinica di Pittsburgh (Konopka, 1947).
Alla Konopka veniva sempre riconosciuta l’abilità di presentare con ordine, chiarezza e semplicità i temi — anche complessi — su cui aveva riflettuto: per questo motivo il pubblico la apprezzava molto. Tuttavia, a volte, queste stesse abilità le causavano brutte sorprese, come quando — benché fosse già famosa nel suo campo — si vide respingere degli articoli da riviste professionali come «Social Work», a causa di un linguaggio che non era ritenuto «abbastanza scientifico». Le sue repliche alle direzioni delle riviste sostenevano — con tono divertito — che, se avessero voluto «parolone», sarebbe stato sufficiente chiederlo.
Nel 1947 Gisela venne assunta dall’Università del Minnesota per rafforzare l’insegnamento del group work. Inizialmente lei e il marito erano piuttosto dubbiosi rispetto a questa proposta: il Minnesota era uno tra gli Stati più caratterizzati da un atteggiamento razzista della popolazione nei confronti degli ebrei e delle persone di colore. A Gisela venne però segnalato anche l’impegno di molti organismi e delle istituzioni pubbliche nella lotta contro il pregiudizio. Gisela e il marito ritennero che potevano dare il proprio contributo in questa direzione e accettarono la nuova sfida. Paul trovò un lavoro in cui la sua professionalità venne considerevolmente apprezzata, tanto che — pur sprovvisto di titoli di studio formali — riuscì a scalare le posizioni aziendali giungendo alla qualifica di ingegnere. Il buon posto del marito, la casa che lo stesso aveva costruito con le sue mani e l’eccellente integrazione nella comunità di quel paese furono i motivi principali per i quali Gisela Konopka, da allora in poi, rifiutò ogni proposta di trasferirsi altrove, sebbene talvolta le offerte fossero molto allettanti dal punto di vista professionale.
La crescita di Gisela — che negli anni acquisì una fama internazionale non solo come operatrice sociale di gruppo, ma in particolare come esperta delle problematiche giovanili — non avvenne esclusivamente nell’ambito della Scuola di Social Work, ma all’interno della comunità e dell’università nel suo insieme. Il suo libro Therapeutic Group Work with Children (1949) venne apprezzato anche in psichiatria, nonostante (o forse proprio per questo) Gisela fosse contraria all’approccio di tipo clinico. Ella sosteneva, invece, che il lavoro sociale di gruppo — in quanto tale — poteva fornire un apporto importante alla terapia psichiatrica.
La continua produzione di articoli e la disponibilità a tenere cicli di lezioni e seminari di studio riflettevano la sua natura interdisciplinare. Non era solo un’animatrice o un’assistente sociale: era una propugnatrice della giustizia, una persona che combatteva senza tregua ciò che riteneva sbagliato, che dava voce a chi era costretto al silenzio (spesso, i giovani).
Una filosofia umana
Per gli operatori sociali tedeschi, Gisela Konopka è la «madre del Lavoro sociale di gruppo». Nelle sue missioni di insegnamento, iniziate nel 1950 e proseguite per circa un decennio, portava prima di tutto un segno di fiducia nella nuova Germania, nella consapevolezza che non tutti i tedeschi (ad esempio, suo marito e altri amici) erano stati contro gli ebrei e a favore del nazismo. A causa di queste idee, venne criticata da alcuni ebrei negli Stati Uniti, che ritenevano inaccettabile un atteggiamento di collaborazione con i persecutori di un tempo. Lei portava la sua filosofia della «giustizia con cuore» anche ai figli delle persone che l’avevano perseguitata anni prima. La sua visione dell’esperienza umana considerava la persona al centro di ogni interesse, sottolineandone la dignità, l’interdipendenza e la reciprocità.
In questi anni erano attivi dei grandiosi progetti di aiuto internazionale (progetti UNRRA, piano Marshall, ecc.), in cui gli Stati Uniti svolgevano un ruolo importante, anche in quanto principali fornitori di risorse. Gisela Konopka — coinvolta direttamente nei progetti per l’ambito del Social work — osservava il verificarsi su larga scala degli errori tipici che venivano commessi negli interventi, poco meditati, nel campo dell’assistenza ai bisognosi.
A partire da questa esperienza, la Konopka maturò una riflessione in merito all’applicazione alle Relazioni internazionali dei principi del Lavoro sociale:
È impossibile esaminare nel dettaglio tutte le applicazioni […] ma sento fortemente il bisogno di avviare una riflessione sulle possibilità e l’importanza vitale del modo con cui [tali principi] devono essere usati sulla scena internazionale oggigiorno e anche di realizzare la grande responsabilità che gli operatori sociali hanno in questa area della scienza politica. (Konopka, 1953, p. 279)
La Konopka non usava a caso l’espressione «Lavoro sociale» invece di casework o social group work o community organization perché con tutta la forza della mia convinzione affermo che ci sono soltanto principi di Lavoro sociale comuni a tutti i nostri metodi mentre noi differiamo soltanto per le abilità che esercitiamo nelle nostre specializzazioni. (Konopka, 1953, p. 279)
E passava in rassegna sei principi di aiuto che potevano trovare facile applicazione:
E concludeva il suo intervento affermando:
Solo quando noi diverremo consapevoli dell’unicità della nostra professione, chiariremo l’unicità delle sue abilità e non avremo paura di contaminarci con la politica, diventeremo veramente parte della grande famiglia delle professioni di aiuto. Abbiamo bisogno di pazienza, di chiarezza, di conoscenze e di coraggio per mantenere viva la vision sociale. Il caos della vita collettiva sarà un incentivo a usare le nostre capacità per dare quell’aiuto che è così seriamente indispensabile. (Konopka, 1953, p. 288)
La critica al Lavoro sociale professionale e l’attenzione ai giovani
Gisela Konopka è stata una delle principali figure del Lavoro sociale internazionale per 60 anni. Ha trasformato la pratica del lavoro sociale di gruppo portando al suo interno una profonda comprensione della visione integrale della persona, non solo nel processo di gruppo ma anche nel suo ambiente più vasto. Quasi nessuno sa che la famosa working definition del Lavoro sociale del 1958, attribuita a Harriett Bartlett, è in realtà un’elaborazione di Gisela Konopka. Era lei, infatti, che dirigeva la sottocommissione incaricata di redigere tale definizione (che si riuniva nella veranda della sua casa) e trovò bizzarro che, da quel momento in poi, la definizione adottata dalla commissione presieduta dalla Bartlett fosse identificata come la «Bartlett’s definition of Social Work».
Gisela Konopka non ha mai rifiutato il Lavoro sociale professionale ma — mal sopportando le convenzioni — l’ha sempre considerato in modo critico. Trovava che le divisioni di tipo metodologico e di ambito erano troppo marcate e non facevano gli interessi della mission del Lavoro sociale. Riteneva che si spendesse troppa energia per discettare sui confini dell’altrui e della propria professione mentre, nel frattempo, le persone rimanevano senza aiuto. Le dispiaceva che un po’ alla volta fosse andata perduta la specializzazione del Lavoro sociale di gruppo, ma soprattutto si rammaricava del fatto che fosse andata persa la filosofia che vi stava dietro. Ancora nei primi anni Cinquanta, come membro del direttivo nazionale dell’associazione degli operatori sociali, si preoccupava perché al centro del dibattito vi era sempre la «professionalità», cosicché, a suo dire, i colleghi divenivano sempre più elitari. Si chiedeva che cosa ne sarebbe stato dei volontari:
Negli anni recenti ci sono stati cambiamenti che hanno reso i servizi sociali un campo esclusivamente professionale con il suo corpo di conoscenze e di abilità. Questo sviluppo minaccia il ruolo dei volontari che talvolta hanno la sensazione che non ci sia più spazio per loro. (Andrews-Schenk, 2005, pp. 94-95)
Analoghe considerazioni sviluppò in un articolo pubblicato nel primo numero di «Social Work» (la rivista degli operatori sociali americani) nel gennaio del 1956.
Il lavoro sociale di gruppo, anche quando — negli anni Cinquanta — fu al massimo del suo riconoscimento come «metodo» (corsi impartiti nelle università, manuali di studio, ammissione all’associazione degli operatori sociali, ecc.), non ha mai superato il 10% degli effettivi del lavoro sociale. In seguito il suo peso tese a declinare, mentre le sue specificità originarie divenivano sempre più annacquate.
Gisela Konopka, nelle interviste rilasciate a quella che sarà poi l’autrice della sua biografia, dice che, come molti altri colleghi, non era stata contraria all’unificazione della professione e alla cosiddetta prospettiva generalista del Lavoro sociale. Affermava: «Non è il group work ciò che mi interessa maggiormente, quanto le idee che stanno dietro al group work» (cit. in Andrews, 2001, p. 58). In retrospettiva, tuttavia, riteneva che l’immersione formale nel social work era stata un errore, perché il group work non aveva la forza per contrastare il conservatorismo e la burocratizzazione del casework che, storicamente, aveva vincolato l’attività degli operatori sociali.
Dopo aver pubblicato numerosi articoli e due libri (Group Work in the Institution: A Modern Challengeè del 1954) e aver viaggiato per il mondo come insegnante, formatrice e «ambasciatrice della giustizia», decise di prendere il dottorato presso la New York School of Social Work approfittando dell’anno sabbatico 1954-1955.
Aveva scelto questa sede perché desiderava studiare con Eduard Lindeman5, un uomo che «consapevolmente, enfatizzava e richiamava di continuo la professione alle sue radici filosofiche» (Konopka, 1958a, p. 11). Egli morì prima che questo disegno potesse realizzarsi, tuttavia l’interesse per il suo pensiero era così intenso che Gisela Konopka decise di preparare la sua tesi su di lui (in seguito la tesi di dottorato, Eduard C. Lindeman and Social Work Philosophy, fu pubblicata dall’Università del Minnesota).
Ritornata nel Minnesota, la Konopka riprese la routine della formazione, dei viaggi e delle pubblicazioni. Nel 1958 pubblicò un saggio nel testo del connazionale e amico Walter A. Friedlander, Concepts and Methods of Social Work. Questo testo, tradotto da Emma Fasolo e pubblicato da Il Mulino nel 1963, ha avuto un considerevole successo anche in Italia. Nel capitolo affidato a lei, la Konopka descriveva un gruppo formato da giovani adulti con epilessia, di cui aveva facilitato l’inserimento nei gruppi dei pari. Con tale esperienza di gruppo sullo sfondo, il saggio passava in rassegna le caratteristiche di questa metodologia.
Un testo che ha avuto un notevole successo internazionale fu Social Group. Work:A Helping Process, pubblicato nel 1963. Qui la Konopka definiva il social group work come un metodo di Lavoro sociale che aiuta gli individui a rafforzare il loro funzionamento sociale attraverso significative esperienze di gruppo e a fronteggiare più efficacemente i problemi personali di gruppo e della comunità. (Konopka, 1963, p. 34)
Nel 1968 la Konopka fu nominata coordinatrice dei programmi comunitari proposti dalle autorità locali, mentre nel 1969 diventò consulente speciale dell’Amministrazione per gli affari scolastici. Il suo contributo aiutò la relazione tra le amministrazioni e i leader degli studenti e degli attivisti durante quell’anno di disordini studenteschi: gli studenti avevano fiducia in lei e l’Amministrazione ascoltava con attenzione quanto aveva da dire sulle problematiche degli studenti.
Ben presto divenne direttrice del Center on Youth Development and Research, dove ottenne finanziamenti per condurre un’ampia ricerca sulle adolescenti, che si compendiò in molti articoli e nel volume Young Girls: A Portraitof Adolescence (1976), nel quale sintetizzava i dati e forniva delle indicazioni preziose. Gli anni in questo Centro furono per la Konopka i più felici e questa attività assorbì quasi ogni suo impegno. L’insegnamento ormai occupava solo una piccola parte della sua vita professionale. Il marito era andato in pensione e poteva accompagnarla nei suoi viaggi, facendole anche da autista nell’andare e tornare dal lavoro. Gisela era prossima alla pensione quando, nel settembre 1976, Paul morì improvvisamente, colpito da infarto.
Il 1978 fu l’anno del pensionamento dall’Università anche per Gisela, evento che tuttavia non portò grandi cambiamenti nella sua vita quotidiana, sempre più piena di altri interessi diversi dall’insegnamento. Per quanto non sempre in buona salute, riuscì tuttavia a rimanere fino agli ultimi giorni della vita nella sua casa piena di ricordi, in dialogo con il marito defunto attraverso un diario quotidiano, accogliendo chi la veniva a trovare e riuscendo anche a fare dei viaggi impegnativi per ricevere i numerosi riconoscimenti che le venivano attribuiti e per partecipare ai più importanti momenti organizzati nell’ambito del Lavoro sociale. Quest’ultima parte della sua vita fu ancora più delle altre indirizzata ai giovani di tutto il mondo, per i quali aveva coniato la sua prospettiva di «giustizia con il cuore», in cui gli individui venivano trattati con comprensione e affetto senza per questo essere assolti dalle proprie responsabilità.
Gisela Konopka morì il 9 dicembre 2003, dopo pochi giorni di degenza all’ospedale di Minneapolis, a due mesi dal suo novantaquattresimo compleanno.
Conclusione
La vita di Gisela Konopka, come quelle di molti altri professionisti, fu disseminata di scelte perseguite fermamente e di dubbi inevitabili; di gioie per i risultati e di riconoscimenti ottenuti, ma anche di amarezze per le incomprensioni, le invidie e le gelosie suscitate. A dimostrazione di questo, possiamo ricordare che, dopo che la Konopka si trasferì a Minneapolis nel Minnesota, per insegnare in quella Università e inserirsi nella comunità con l’amatissimo marito, ottenne dei riconoscimenti (soprattutto di ordine professionale) pressoché esclusivamente all’esterno della Scuola di Social Work.
Ciò che successe alla Konopka dimostrò ancora una volta la verità del famoso nemo propheta in patria. Quando, nel 1954, si recò a New York per preparare la sua tesi di dottorato si trovò sommersa di richieste di corsi, seminari e consulenze che non le lasciarono neanche un minuto per lo studio personale. Nei decenni successivi ottenne proposte da almeno una decina di università del Paese che le chiedevano di dirigere facoltà e centri di Lavoro sociale. Tuttavia, richieste di questo tipo (di formazione, consulenza o in ambito universitario) non le arrivarono mai dalla città nella quale aveva scelto di stabilirsi: Minneapolis. Anche nei suoi ultimi anni, ottenuto il titolo di social worker «emerita», si vide negare da una burocrazia ottusa la possibilità di svolgere un’azione di supervisione nei confronti di giovani colleghi. Come osservò la stessa Konopka in una sua lettera di replica, chi le rifiutò questa possibilità dimostrò di non conoscere il significato della parola «emerito».
Gisela Konopka era una persona allo stesso tempo scontrosa e gentile — dice la sua biografa —, compassionevole ma anche bisognosa di attenzioni. Quando qualcuno osservava che, non appena giunta in America, aveva avuto un immediato successo, lei non era d’accordo: «è stato un terribile, lungo cammino» (AndrewsSchenk, 2005, p. 251). Non pensava mai di aver raggiunto ciò che desiderava. Era guidata dalla convinzione di poter fare qualcosa per contribuire a ridare autonomia e forza agli altri. Questo sentimento alleviava un senso di colpa che portava sempre con sé, un senso di colpa che forse derivava dall’essere sopravvissuta all’Olocausto, mentre così tanti non ce l’avevano fatta.
Bibliografìa
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Lewin Rhoda G. (2009), Gisela Peiper Konopka. In Jewish Women:A Comprehensive Historical Encyclopedia, 1st March 2009, Jewish Women’s Archive, September 3, 2009 http://jwa.org/encyclopedia/article/ konopka-gisela-peiper.
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Note:
Fonte: La rivista del lavoro sociale, Vol. 9, n. 3, dicembre 2009 (pp. 421-433)