1. /
  2. Strumenti
  3. /
  4. Biografie
  5. /
  6. Frances Perkins

Frances Perkins

La signora ministro di Bruno Bortoli – Università Cattolica di Milano

Frances Perkins (Boston, 10 aprile 1880 New York, 14 maggio 1965)

 

La biografia di Frances Perkins riassume ed evidenzia le caratteristiche del Social work statunitense della prima metà del Novecento: un movimento a forte predominanza femminile, religiosamente ispirato e dotato di cultura umanistica e tecnica, che si aggrega attorno ai due grandi nuclei ispiratori della Charity Organization Society1 e del Settlement Movement2. Da una forma di impegno sociale e politico perlopiù volontario, il Social work si avvia a diventare, attraverso una formazione specifica nei campi del casework, del lavoro di gruppo e in quello di comunità, un’azione sociale svolta anche in forma professionale. Sarà inoltre protagonista dei movimenti sindacali e politici che metteranno al centro del loro programma la tutela delle minoranze e delle fasce deboli della popolazione, per la promozione umana e per una maggiore giustizia sociale.

La precoce vocazione sociale della Perkins avviene al College, dove conosce l’originale Lega dei Consumatori di Florence Kelley (della quale, più tardi, sarà amica e collega). A ciò faranno seguito la sua attività nei Settlement e il suo competente impegno come ispettrice di fabbrica e come «lobbysta» per l’adozione di provvedimenti legislativi a tutela dei lavoratori. Frances Perkins assumerà ruoli sempre più importanti, prima nello Stato di New York e poi nel Governo federale degli Stati Uniti, come Ministro del lavoro. Questi incarichi rappresenteranno le tappe «naturali» di un percorso analogo — anche se più appariscente — a quello effettuato da decine di altre colleghe più o meno famose.

La biografia della Perkins è la testimonianza dell’importanza sempre maggiore assunta dal Social work nella società americana degli anni Trenta. L’uscita dalla depressione economica grazie agli strumenti del New Deal vede il protagonismo dei social workersal vertice, con Frances Perkins, al livello intermedio con Harry Hopkins4, impegnato nella gestione delle diverse agenzie incaricate dei soccorsi ai disoccupati e nella creazione di posti di lavoro sostenuti dai fondi pubblici, e al livello di base con la «truppa» (Rank and File) di quel particolare esercito di assistenti sociali — esperti nell’organizzazione comunitaria ma anche nel sostenere i singoli membri della comunità che non riescono a far fronte alle proprie responsabilità sociali — volto a combattere il nemico che ha la faccia del bisogno.

 

L’origine della vocazione sociale

Fannie Coralie Perkins era nata a Boston ma, quando la piccola aveva appena due anni, la famiglia si era trasferita a Worcester, nel Massachusetts, dove il padre assieme a un socio gestiva una vendita all’ingrosso di articoli di cancelleria. Pur non essendo ricca, la famiglia godeva del comfort sufficiente a trascorrere l’estate nella casa di vacanza nel Maine, di cui la famiglia era originaria, e a far studiare le figlie Fannie ed Ethel, di quattro anni più giovane. Era la tipica famiglia della Nuova Inghilterra, impregnata dei valori e della tradizione dei primi coloni, un misto di profonda religiosità, integrità morale e dedizione al lavoro. Le biografie non fanno cenno a eventuali contestazioni della giovane Perkins nei confronti dei genitori, anche se non sembra difficile immaginarle, considerando le scelte di vita che via via maturerà — in linea con le idee dell’Era progressiva — e che, pur nutrite dello stesso mondo valoriale, rappresenteranno delle rotture rispetto al ruolo della donna tradizionalmente concentrato nel mondo domestico.

Dopo aver frequentato le scuole superiori a Worcester, nel 1898 Fannie entrò al College femminile di Mount Holyoke, noto per la qualità degli studi che formavano le «mogli ideali» dei diplomati di Harvard e Yale. La forte impronta religiosa di quello che era ancora un seminario femminile si accoppiava con il rigore degli studi scientifici, che non escludevano la presentazione della teoria evoluzionista.

I suoi genitori speravano che, conseguito il diploma, sarebbe tornata a Worcester e dopo un periodo di vacanze si sarebbe dedicata all’insegnamento oppure a un impegno nella Chiesa per poi, presto o tardi, formarsi una sua famiglia. Ma durante l’ultimo anno di College un gruppo di studenti aveva fondato una sezione della National Consumer’s League del quale entrò a far parte anche lei; fu così che, nel 1902, assistette a un incontro al quale era stata invitata la leader del movimento, Florence Kelley. Anni dopo, avrebbe scritto a un’amica che il discorso della Kelley «per la prima volta le aveva aperto la mente sulla necessità e sulla possibilità di svolgere quel lavoro che sarebbe stata la [sua] vocazione» (Martin, 1976, p. 52). A differenza di altri College, Mount Holyoke non si limitava a impartire formazione nelle lettere e nelle scienze ma proponeva approfondimenti nelle scienze sociali e ciò permise alla Perkins, a imitazione della Kelley, di mettere a frutto la sua formazione dedicandosi ai problemi urbani e del lavoro.

 

Un incontro importante

Subito dopo il diploma, nonostante le proteste del padre si recò a New York dove avrebbe voluto impiegarsi presso la locale Charity Organization Society. Aveva sentito parlare del suo direttore Edward T. Devine e volle incontrarlo subito. Non avendo un appuntamento, solo grazie a una risoluta insistenza riuscì a superare il filtro della segretaria e a venire ammessa a un colloquio nel quale fece presente il suo desiderio di lavorare nella COS. Alla domanda di Devine su che cosa avrebbe voluto fare rispose: «Voi avete delle visitatrici, che incontrano le famiglie che hanno chiesto il vostro aiuto. Fanno delle inchieste, distribuiscono alimenti e aiutano le famiglie a districarsi dai loro problemi».

Devine sorrise pensieroso: «Supponete di essere inviata in una casa dove trovate i piatti sporchi sul tavolo, niente da mangiare, i bambini con febbre e mal di gola, la madre scarmigliata con un occhio pesto e piena di lividi e il padre a letto ubriaco. Cosa fareste?». «Prima di tutto chiamerei la polizia e farei arrestare quell’uomo» rispose la Perkins.

Il sorriso si allargò sul viso di Devine: «Non è esattamente quello che suggeriamo di fare…». Lo scopo della COS, spiegò, era far tornare l’uomo al lavoro, così da poter adempiere ai suoi doveri di capofamiglia, e non quello di mandarlo in prigione. Poi in maniera gentile aggiunse che non vi erano possibilità di lavoro nella COS per persone così giovani e che avrebbe dovuto maturare qualche esperienza di vita prima di potersi dedicare in modo efficace ai poveri e ai disoccupati (Martin, 1976, p. 54).

La Perkins non se la prese per il giudizio negativo di Devine e, anzi, gli chiese come avrebbe potuto prepararsi per quei compiti. Questi le suggerì di trovarsi un lavoro come insegnante, dove le opportunità erano maggiori, dedicando qualche anno allo studio e all’osservazione, per acquisire l’esperienza necessaria. Del resto, era del tutto digiuna di conoscenze in quel settore di attività: Devine le mise a disposizione una serie di libri e di numeri di «Charities», la rivista del movimento, per avviare un approfondimento.

Nel suo ottimismo, la Perkins non considerò una sconfitta il viaggio a New York: aveva avuto l’opportunità di acquisire i consigli del principale esponente del movimento assistenziale a livello nazionale e cominciò a seguirli. Si dedicò così all’insegnamento, rispondendo alle inserzioni di chi cercava supplenti temporanei, in varie parti del Paese.

 

Una nuova identità

Nel 1905 la Perkins insegnava a Chicago e qui diede una svolta decisiva alla sua biografia personale e professionale: mutò il suo nome da Fannie a Frances, cambiò credo religioso, dal Congregazionalismo alla Chiesa episcopale (dopo aver meditato per un certo periodo di tempo la conversione al cattolicesimo) e iniziò la sua collaborazione con i principali Settlement di Chicago: il Chicago Commons, guidato dal reverendo Graham Taylor, e Hull House, diretto da Jane Addams.

Più che una rottura formale con la famiglia, con la quale continuerà a intrattenere rapporti affettuosi e dalla quale continuerà a essere chiamata Fannie, la Perkins sembrerebbe aver maturato la consapevolezza di un’identità nella quale il nome, il credo religioso e la scelta del campo di attività si combinavano nel dare maggiore efficacia alla propria personalità.

Già al tempo del College si era attribuita un’età inferiore di due anni, così da apparire nata, in molti atti, nel 1882 anziché nel 1880; ma, secondo i suoi biografi, non c’era malafede da parte sua. Lo proverebbe il fatto che, una volta divenuta ministro, andò alla ricerca di testimonianze, in famiglia, che provassero quella che per lei era la sua data di nascita, al fine di contrastare l’accusa di celarsi sotto una falsa identità.

Inizialmente aveva cercato di conciliare l’insegnamento con l’attività nel Settlement. Qui univa un servizio, per lei particolarmente penoso, di supporto alle infermiere che agivano a domicilio, in mezzo a situazioni di miseria e di squallore indicibili, in un’azione di «recupero crediti». Era divenuta particolarmente abile nel sostenere le povere donne immigrate che, lavorando a domicilio per imprenditori senza scrupoli, non riuscivano poi a farsi pagare quanto pattuito. Non era semplice per le povere donne italiane, che non conoscevano l’inglese, rivolgersi ai tribunali per avere giustizia. Mancavano le parole, il tempo e i soldi, così si rivolgevano ai Settlement, pregando qualcuna delle residenti di agire in loro vece. La determinazione di Frances Perkins nell’affrontare gli sfruttatori e la sua minaccia di metterli in cattiva luce di fronte alla collettività apparivano particolarmente efficaci.

 

Lavoro sociale, ma anche studio e ricerca

Queste esperienze convinsero la Perkins a dedicarsi a tempo pieno al lavoro sociale; tuttavia c’era il problema di come sostentarsi: il Settlement offriva pochi impieghi retribuiti. Attraverso un’amica seppe che un’associazione di Filadelfia stava avviandoun servizio di protezione a favore delle ragazze immigrate, molte delle quali di colore; al loro arrivo alla stazione ferroviaria loschi personaggi le circuivano per avviarle alla prostituzione, oppure, se andava meglio, per indirizzarle presso agenzie di collocamento che avrebbero trattenuto la maggior parte del loro salario come contributo spese.

La Perkins pose la sua candidatura, che venne accettata: fu nominata segretaria generale a cinquanta dollari al mese (un trattamento economico inferiore a quello percepito come insegnante). In seguito si troverà spesso a scherzare su questa prima esperienza di social work professionale. Alle giovani che le chiedevano come avesse fatto a fare carriera rispondeva: «Non lo so, io ho iniziato dal vertice» (Martin, 1976, p. 66).

Nel suo lavoro quotidiano avrebbe dovuto occuparsi di «ricerca» — qual era la provenienza di queste ragazze? come venivano trattate? — e di «protezione», formulando progetti di aiuto che coinvolgessero l’amministrazione comunale e le forze di polizia.

Dopo un po’ di tempo era riuscita ad avere un quadro della situazione: l’ubicazione degli alloggi decenti e di quelli indecenti, delle agenzie di collocamento oneste e di quelle disoneste; inoltre, aveva acquisito la collaborazione part-time di due donne di colore che si recavano presso le stazioni a informare le ragazze in arrivo e per le quali la Perkins era riuscita a ottenere la tutela della polizia.

Per quanto gli orari fossero lunghi e le responsabilità gravose, trovava questo lavoro profondamente soddisfacente perché impegnava ogni aspetto della sua personalità. Soprattutto, vi era il suo profondo desiderio religioso di servire il povero o, come evidenziò in una lettera a un’ex compagna di corso: «persone più deboli di me e che hanno bisogno dell’aiuto che posso dare loro» (ibidem, p. 67). Il lavoro, però, la stimolava anche per le sfide teoriche e intellettuali che poneva: perché il capitalismo generava così tanti poveri? Come si potevano correggere le ingiustizie sociali? Decise così di frequentare dei corsi serali di economia presso l’università della Pennsylvania dove insegnava Simon N. Patten, un filosofo che aveva molto influito sullo sviluppo delle COS5 e del quale anche Edward Devine era stato allievo.

Pur ammirando Patten, era troppo pragmatica per divenire una sua seguace, anche se nelle leggi che in seguito contribuì a realizzare come ministro trovarono posto molte idee di quel filosofo. Patten la considerò un’allieva eccezionale e le fece ottenere un finanziamento dalla Russel Sage Foundation per una ricerca sulla denutrizione dei bambini in una vasta area deprivata di New York, che avrebbe condotto unitamente alla frequenza di un master in sociologia alla Columbia University. La sua tesi di diploma, riguardante appunto tale ricerca, fu pubblicata in sintesi su «The Survey» nell’ottobre del 1910 (Perkins, 1910).

 

Leggi a tutela dei lavoratori

Nell’aprile del 1910, ancora prima di completare il suo master, le venne offerto l’incarico di segretaria della New York City Consumer’s League, la prima e forse la più importante della federazione americana. Avrebbe collaborato con Florence Kelley e avrebbe avuto il suo ufficio nel Charities Building, in frequente contatto con Edward

Devine, il direttore di «The Survey» Paul Kellogg, e molti altri come loro. Pur in maniera non intenzionale era riuscita a giungere dove si era proposta nell’incontro di otto anni prima con il direttore della COS: aveva acquisito quell’esperienza pratica e teorica che le permetteva, a trent’anni, di ricoprire quel ruolo che aveva desiderato.

Lavorare con Florence Kelley, come ebbe a scoprire, era un’esperienza straordinaria: non era propriamente una santa, si infervorava, era violenta e talvolta ingiusta. Ma era appassionata, brillante ed eccitante; non si deprimeva per le sconfitte, aveva pazienza e buon umore (Martin, 1976, p. 76).

La Perkins condivideva l’approccio pragmatico ai problemi della Kelley e non aveva difficoltà a uniformarsi alla «griglia» proposta da quest’ultima per la validazione dei progetti di miglioramento delle condizioni di lavoro. Ogni progetto presentato dalla Perkins avrebbe dovuto confrontarsi con le domande della Kelley: quante persone sono coinvolte? quali sono i danni generali e specifici? come si possono ovviare? dove sta la forza del progetto? da dove avrà inizio? come potrà consolidarsi?

Era un modello che la Kelley aveva sviluppato quando guidava le prime ispettrici di fabbrica dell’Illinois e che ora applicava all’obiettivo di introdurre o estendere provvedimenti legislativi di tutela dei lavoratori.

I problemi che furono al centro dell’azione di Frances Perkins negli anni in cui rimase segretaria della Lega di New York furono essenzialmente tre e furono affrontati in maniera così intensa che il suo nome venne legato ai provvedimenti che li riguardarono. Erano: il controllo sanitario dei panifici, le tecniche di prevenzione degli incendi e la «legge delle 54 ore» proposta dalla Lega per vietare alle donne di tutte le età e ai ragazzi minori di 18 anni di lavorare nelle fabbriche più di 54 ore per settimana.

La ricerca sui panifici iniziò nell’ottobre del 1910. Nella città di New York erano disseminati migliaia di questi laboratori. Nei quartieri più poveri le loro condizioni igieniche erano pessime: spesso ubicati nelle cantine, erano il regno dei topi e in estate i lavoratori soffocavano per il caldo stagionale unito a quello dei forni.

Questa ricerca si sommò ben presto a quella relativa al pericolo degli incendi nei luoghi di lavoro, ai quali i panifici con i loro forni a fiamma viva erano fra i più esposti. Il 25 marzo del 1911, un pomeriggio di sabato, si sprigionò un furioso incendio all’ottavo piano di un palazzo di dieci dove circa cinquecento giovani donne, per lo più tra i 16 e i 23 anni di età, erano impiegate nella realizzazione di camicette da donna. Il fuoco era stato causato da un mozzicone di sigaretta gettato in un deposito di ritagli di cotone residuo della lavorazione. A causa dell’insufficienza delle uscite di sicurezza, alcune delle quali erano bloccate, e dell’impotenza dei vigili del fuoco che non riuscivano a inviare i getti di acqua a quell’altezza, l’incendio fu un massacro: vi trovarono la morte 146 ragazze, immigrate dall’Italia e dall’Est Europa. Sempre ricordato in occasione della Giornata della Donna, anche se non ne è propriamente all’origine, l’incendio ebbe tra i testimoni oculari Frances Perkins, che abitava a poca distanza dalla fabbrica.

Il dramma spinse la classe politica, sollecitata da associazioni costituitesi in un Comitato per la Sicurezza, ad approntare una serie di misure di prevenzione per la predisposizione delle quali fu acquisito anche il parere di Frances Perkins, che aveva studiato a fondo la questione. Il suo essere donna, e senza una specifica formazione tecnica, tendeva a venire ridicolizzato dalla commissione legislativa, ma la Perkins trovò l’appoggio del futuro governatore Smith con il quale aveva già avuto modo di collaborare.

A partire dal gennaio del 1912, inoltre, Frances Perkins cominciò i suoi viaggi settimanali ad Albany, dove si riuniva il Parlamento dello Stato, per caldeggiare l’adozione del provvedimento delle «54 ore». Gli interessi economici attraversavano trasversalmente i due partiti che si alternavano al governo e così era necessaria un’intensa azione di lobbying per acquisirne il sostegno. Imparò a conoscere non solo il mondo della politica e l’arte del compromesso, che gli sarebbero stati molto utili nella successiva attività di governo, ma anche come trasformare in un vantaggio il fatto di essere donna in mondi prettamente maschili quali quelli della politica e dell’amministrazione pubblica.

 

In politica tra uomini: «come una madre»

In Parlamento, dove si trovava per la sua azione di lobbying, incontrò casualmente un vecchio politico che le confidò, turbato fino alle lacrime, la sua pena umana per dover agire contro un collega colpevole di aver violato la legge. La situazione la lasciò stupita e perplessa, tuttavia ben presto cominciò a considerarla qualcosa di più di una vicenda grottesca, poiché rappresentava una circostanza che le aveva rivelato qualcosa di importante:

Ero una donna, e lui mi riteneva una donna buona, che non si sarebbe presa gioco delle sue lacrime […] Imparai da questo che il modo con il quale gli uomini considerano le donne nella vita politica è quello di associarle alla maternità. Essi conoscono e rispettano le loro madri; il novantanove per cento di loro è così: è un atteggiamento primordiale e primario. Così dissi a me stessa: «È così che vanno le cose. Tanto vale atteggiarsi, vestirsi e comportarsi in modo tale da richiamare nel loro subconscio l’idea delle loro madri». (Martin, 1976, p. 146)

Da allora in poi si sarebbe vestita di conseguenza: niente di estremo o di bizzarro. Per ogni situazione connessa al suo lavoro si presentava come un’attrice che interpreta una parte. Adottò una specie di uniforme composta da un semplice vestito nero con un fiocco bianco al collo completato, quasi sempre, da un cappellino scuro, di quelli detti a tricorno, che spesso indossava per tutto il giorno.

Nel secondo dopoguerra, dopo aver concluso il suo incarico ministeriale, fu incaricata di far parte del consesso che doveva dirimere le controversie in materia di assicurazioni contro gli infortuni. Comprese che «alcuni dei vecchi avvocati e rappresentanti delle compagnie di assicurazioni, così come le vittime stesse, avrebbero fatto fatica ad accettare un giudice donna. Cercai di ricordargli la loro madre e funzionò. Erano disposti ad accettare la giustizia dalle mani di una donna che gli ricordava la loro mamma». Non aveva dubbi di aver scoperto il giusto modo di vestirsi: «Ha sempre funzionato, ne ho avuto così tante dimostrazioni!» ebbe a dire negli ultimi anni di vita (ibidem, pp. 146-147).

 

La decisione di sposarsi

Nel settembre del 1913 Frances Perkins si sposò con Paul Wilson. Nessuno dei due era giovanissimo (lui aveva quattro anni più di lei) e nella cerchia delle amiche la notizia fu accolta con stupore. Nel mondo delle donne socialmente impegnate dell’epoca il matrimonio era piuttosto raro e Frances «dovette» fornire qualche spiegazione:

Non ero particolarmente ansiosa di sposarmi. A dire il vero ero riluttante, non ero più una bambina ma una donna matura. Non desideravo sposarmi; mi era sempre piaciuto vivere da sola. Quando mi sposai, Pauline Goldmark6 si lamentò: «Oh, Frances, perché ti sposi? Eri una persona così promettente. Perché ti sposi?». Temeva che sarei stata meno sensibile al movimento del Social work e della Consumer’s League. Ricordo che risposi: «È difficile dire il perché, Pauline, ma ho pensato che fosse meglio sposarmi e togliermi il pensiero […]. Conosco bene Paul, lo conosco da tanto tempo, mi piace, mi piacciono i suoi amici e così ho pensato che sarebbe stato meglio sposarmi e non pensarci più». Ricordo che Pauline osservò: «Che strano motivo per sposarsi: non doverci pensare più». (Martin, 1976, p. 125)

I biografi tuttavia hanno trovato dei riscontri in base ai quali sembra essere stata la timidezza la causa di simili spiegazioni. Le lettere quasi quotidiane scambiate nel periodo del fidanzamento mostrano, invece, un innamoramento condiviso. Il marito era un economista, diplomato all’università di Chicago, che assieme a un collega si era trasferito a New York per fare parte dello staff del sindaco dell’epoca. Curiosamente i due coniugi rischiavano di trovarsi su fronti contrapposti: lei come portavoce delle rivendicazioni dei cittadini e il marito quale ideatore dei provvedimenti amministrativi municipali. In realtà la sintonia era molto elevata e un conflitto poco probabile.

Tuttavia, proprio per i loro ruoli, Frances Perkins, d’accordo con il marito, decise che non avrebbe modificato il proprio cognome nella sua attività pubblica, portando quello del marito solo nelle situazioni in cui era coinvolta la famiglia. Una decisione consonante con la sua visione emancipazionista e che sosterrà sempre con molta naturalezza. Più volte, come nell’occasione della sua nomina nel governo di New York o quando fu designata ministro del lavoro nel governo nazionale, gli uffici posero il problema formale dell’uso del cognome da nubile, che era contrario alle abitudini correnti. Già nella prima occasione Frances si premurò di acquisire un parere legale che dimostrasse la legittimità di questa sua scelta e che fece valere anche in seguito, con piena accettazione da parte di Al Smith7 e di F.D. Roosevelt. Anzi, mise a disposizione questo parere per quelle donne che avrebbero voluto seguire il suo esempio.

 

Dalla famiglia al governo

Nei primi anni del Novecento diverse inchieste avevano messo in evidenza un alto tasso di mortalità perinatale, dovuto alla mancanza di assistenza o a un’assistenza inadeguata durante il parto. Così, nel settembre 1917, l’Associazione delle donne della città di New York aveva aperto il primo Centro di maternità, che forniva istruzioni per il parto e per la cura dei neonati. Allo stesso tempo metteva a disposizione un servizio di assistenza a domicilio, gestito volontariamente dalle donne associate, che avrebbe aiutato le madri nelle prime settimane dopo il parto.

A questo progetto si dedicò intensamente anche Frances Perkins, che aveva lei stessa sperimentato la perdita del primo figlio subito dopo la nascita e un lungo periodo di malattia nei mesi successivi. Da qualche mese era divenuta nuovamente madre della piccola Susanna e, in un momento in cui si immaginava di poter conciliare la cura della propria famiglia con un impegno sociale volontario (reso possibile dal reddito del marito, più che adeguato per le esigenze familiari), accettò di dirigere questa istituzione.

Congiuntamente, da parte di più settori impegnati della società veniva fatta pressione sul Parlamento perché adottasse un provvedimento per il sostegno pubblico della maternità e dell’infanzia tanto nelle aree urbane quanto nel mondo rurale, dove la situazione appariva ancora più grave. Tuttavia, solo con l’avvento del suffragio femminile, alla fine del 1920, l’azione sul legislatore poté risultare decisiva, favorendo, nel gennaio del 1921, l’approvazione della legge Sheppard-Towner che garantiva fondi federali ai singoli Stati per i programmi di assistenza materna e infantile.

Purtroppo agli inizi del 1918 il marito di Frances Perkins diede i primi segni di una malattia mentale che, da quel momento in poi, non gli avrebbe più garantito, anche nei momenti di apparente recupero fisico, un’attività lavorativa regolarmente remunerata. Così, in quello stesso anno, apparve provvidenziale la proposta di Alfred Smith di nominare la Perkins nella sua amministrazione come responsabile dei problemi del lavoro. Il salario di 8.000 dollari all’anno, che per l’epoca era molto elevato (i giornali evidenziarono che nessuna donna, prima di allora, aveva mai ottenuto uno stipendio così alto), avrebbe garantito il sostegno della famiglia e il pagamento delle cure per il marito (caratterizzate, in seguito, da frequenti ospedalizzazioni e assistenza professionale continua fino alla morte, avvenuta nel 1952). L’estrema riservatezza di Frances Perkins sulla propria vita privata — una caratteristica che l’accompagnerà sempre — non solo tenne nascosta la malattia del marito, nota esclusivamente alla cerchia più intima degli amici, ma fece pensare alla maggioranza degli americani che lei fosse nubile (oltre a mantenere il proprio cognome, accettò con favore l’abitudine generalizzata di giornalisti e cittadini di chiamarla «Miss» Perkins).

Di fronte alla proposta del governatore la Perkins non accettò immediatamente, riservandosi di chiedere il parere di Florence Kelley3, che temeva non avrebbe visto con favore questo improvviso cambio di campo. Al Smith accondiscese, sicuro dell’esito, mentre la Perkins fu al colmo dello stupore quando la Kelley con le lacrime agli occhi esclamò: «Dio sia lodato! Non avrei mai pensato di poter vedere il momento in cui una donna che ho formato, che si è preoccupata delle donne e di fare funzionare bene le cose, avrebbe avuto l’opportunità di divenire un dirigente dell’amministrazione pubblica» (Martin, 1976, p. 144).

 

L’impegno come ministro del lavoro

A partire dal 1918 e fino al 1945 (con una breve interruzione dal 1920 al 1922 per la mancata rielezione di Al Smith all’incarico di governatore), Frances Perkins svolse ininterrottamente alti incarichi di governo nell’ambito della prevenzione degli infortuni sul lavoro e del sostegno ai disoccupati, prima nello Stato di New York con lo stesso Smith e con Franklin D. Roosevelt, che ne avevano apprezzato le grandi competenze e capacità gestionali, e poi, dal 1933, come ministro del lavoro degli Stati Uniti. La fiducia di Smith nei confronti delle competenze della Perkins era spesso oggetto di sarcasmo: Al Smith ha letto un solo libro — si diceva —, quel libro è una persona e il suo nome è Frances Perkins; lei gli ha detto tutte queste cose e lui le ha creduto8.

Ancora prima di essere nominata ministro del lavoro si era creata la fama di persona competente contestando, dati alla mano, le dichiarazioni tranquillizzanti sulla situazione economica del governo in carica. Così, il suo alto incarico di governo non fu una sorpresa. La sorpresa riguardava soltanto il fatto che Roosevelt avesse avuto il coraggio di nominare una donna che dietro di sé non aveva il sindacato o gli imprenditori, ma solo la sua competenza tecnica. Come ministro nell’epoca della Grande Crisi, la Perkins estese a livello nazionale le misure già sperimentate nello Stato di New York per contrastare la disoccupazione di massa seguita al crollo di Wall Street. La legge sui minimi salariali e quella che introduceva schemi assicurativi per la disoccupazione, la malattia e la vecchiaia vennero studiate minuziosamente dalla Perkins, anche se furono poi passate come l’elaborato di una commissione che lei presiedeva solamente. Temeva, infatti, che apparire l’artefice di questi provvedimenti — una donna a malapena sopportata dai sindacati e dagli imprenditori — avrebbe reso ancora più difficile il loro iter di approvazione. Questi provvedimenti, unitamente alle iniziative federali per i sussidi ai disoccupati e alla predisposizione di lavori pubblici (affidata alla gestione di Harry Hopkins), divennero le pietre angolari delle politiche del New Deal.

Nonostante tutta la sua abilità nel districarsi fra i meandri delle procedure politiche attraverso una delicata azione di mediazione, la Perkins fu spesso bersaglio della stampa e del Congresso. Aliena da iniziative demagogiche, sostenne strenuamente il rispetto della legislazione vigente tanto con chi voleva impedire determinati scioperi quanto con i deputati che, cavalcando il timore del comunismo, volevano limitare l’immigrazione o destituire dalle loro funzioni e deportare chiunque fosse sospettato di essere attivista del partito comunista (accusando lei stessa di essere tale). Oggetto di una procedura di impeachment, insistette per essere ascoltata pubblicamente, tanto era certa della correttezza delle procedure seguite. La commissione d’inchiesta dovette in effetti darle ragione e la assolse pienamente.

 

Qualcosa da dire alle giovani generazioni

Esaminando le fatiche e i colpi che dovette subire per le sue scelte di impegno sociale e politico, unite alle difficoltà nell’ambito della famiglia, si rimane sorpresi di fronte alla grande resistenza di Frances Perkins. Non stupisce quindi che, quando Roosevelt fu eletto per un quarto mandato, lei premesse perché venisse nominato qualcun altro al suo posto. Tuttavia Roosevelt, già indebolito dalla malattia che l’avrebbe portato alla morte qualche mese dopo, le rispose di non pensarci nemmeno: «Frances, tu hai lavorato molto bene. So quello che hai dovuto passare. So quello che hai realizzato. Grazie» (Martin, 1976, p. 460). Di fronte a questo attestato di stima espresso in forma commossa, Frances Perkins accettò di rimanere al suo posto ma, dopo la morte di Roosevelt il 12 aprile del 1945, mise immediatamente a disposizione il suo mandato al successore Harry Truman, che nominò un nuovo ministro.

A 65 anni (ma per lei erano 63) si scoprì conferenziera e insegnante: era chiamata frequentemente a testimoniare le realizzazioni del New Deal nelle università americane ed europee. Fu anche autrice di un’apprezzata biografia di Roosevelt (The Roosevelt I Knew, New York, 1946), tradotta in più lingue, che le garantì, tramite i diritti d’autore, un insperato reddito sostitutivo a quello perduto come ministro.

Sulla soglia degli ottant’anni ottenne un contratto dalla prestigiosa università Cornell, nei pressi di New York, e accettò anche il sorprendente invito rivoltole da un gruppo di studenti di risiedere nel campus in mezzo a loro. Aveva già lasciato il suo appartamento alla figlia e alla sua famiglia, andando a vivere in una stanza in affitto, nella maniera frugale che le era abituale. Quindi, l’invito a stare in mezzo ai giovani l’aveva resa felice. Trascorse così gli ultimi cinque anni di vita, alternando le lezioni nella School of Industrial and Labor Relations alle testimonianze sulla vita americana di inizio secolo per i giovani universitari.

Nell’inverno 1964-65 la sua salute declinò rapidamente e nella primavera successiva, colpita da un attacco di cuore, morì in un ospedale di New York dopo pochi giorni di ricovero.

 

Bibliografia

Bortoli B. (2006), I giganti del lavoro sociale, Trento, Erickson.

Breiseth C.N. (1966), The Frances Perkins I knew, Franklin D. Roosevelt American Heritage Center Museum, wwwfdrheritage.org.

Kirstin Downey (2009), The woman behind the New Deal, New York, Nan A. Tales.

Martin G. (1976), Madam Secretary Frances Perkins, Boston, Houghton Mifflin Company.

Perkins F. (1910), Some facts concerning certain undernourished children, «The Survey», 1° October, pp. 68-72.

Perkins F. (1921), After-care for industrial compensation cases, Proceedings of the National Conference of Social Work, The University of Chicago Press, Chicago, Illinois, pp. 58-63.

Perkins F. (1935), The outlook for economic and social security in America, Proceedings of the National Conference of Social Work, The University of Chicago Press, Chicago, Illinois, pp. 54-63.

Perkins F. (1941), What is worth working for in America, Proceedings of the National Conference of Social Work, New York, Columbia University Press, pp. 32-40.

 

Note

  1. La Charity Organization Society (COS) aveva lo scopo di coordinare i soccorsi, pubblici e privati, che la comunità metteva a disposizione dei poveri. Il prototipo della COS era stato fondato nel 1869 a Londra sotto la guida, fra gli altri, di Charles Loch e di Octavia Hill e la sua azione era stata riproposta qualche anno dopo (1877) negli Stati Uniti. A differenza dell’organismo originario londinese, che si occupava solo dei poveri «meritevoli» e non assistiti dalla Poor Law,quello statunitense si collocava in un quadro sociale decisamente più ampio e con una forte legittimazione da parte delle autorità amministrative, pur mutuando spirito e principi organizzativi del prototipo (inchiesta sulle cause del bisogno, formulazione di un piano di intervento per il raggiungimento dell’autonomia da parte dell’assistito e azione di accompagnamento da parte delle friendly visitors, volontarie appartenenti alle classi abbienti che fornivano modelli di comportamento e sostegno morale alle persone aiutate).
  2. Il movimento delle «residenze sociali» (Settlementhousemovement),che in questi anni si sta espandendo rapidamente negli Stati Uniti, si ispirava all’originario modello inglese di Toynbee Hall, istituito a Londra nel 1884. L’idea era che uomini e donne universitari o appena diplomati avrebbero preso «residenza» in uno slum per condividere i problemi dei poveri e collaborare con loro per modificare le condizioni di vita di quella collettività. Attraverso progetti educativi, di tempo libero, di igiene urbana e di abitazioni più confortevoli si cercava di riempire il fossato tra ricchi e poveri che l’industrializzazione aveva ampliato e di diminuire la diffidenza reciproca che derivava dall’ignoranza circa le effettive condizioni delle classi meno abbienti. L’enfasi del movimento statunitense era posta maggiormente sul movimento di riforma sociale, con i suoi leader direttamente implicati in quei movimenti sindacali e politici che lottavano per l’adozione di provvedimenti efficaci per le condizioni di vita urbana e di leggi contro lo sfruttamento del lavoro minorile e a tutela delle donne lavoratrici.
  3. Florence Kelley ( 1859-1932), amica di Jane Addams nel movimento emancipazionista femminile, in quello per la pace e in quello dei Settlement, lega il suo nome soprattutto all’azione originale ed efficace nella scelta degli strumenti per l’abolizione del lavoro minorile, la promozione della legislazione a tutela delle donne, la fissazione di minimi salariali e lo sviluppo di servizi materno-infantili.
  4. Harry Lloyd Hopkins (1890-1946), diplomato alla New York School of Philanthropy, abilissimo nell’organizzazione dei servizi sociali, a partire dal 1931 è il braccio destro di Roosevelt nella guida degli organismi per gli aiuti ai disoccupati e per la collocazione al lavoro di milioni di persone. In seguito, come consigliere personale di Roosevelt, svolge preziosi incarichi diplomatici nella preparazione delle conferenze di Teheran nel 1943 e di Yalta nel 1945, interloquendo direttamente con Stalin e Churchill per conto del Presidente americano.
  5. Fu lui a coniare l’espressione social worker per definire l’azione dei friendly visitors e dei residenti nei settlement (Bortoli, 2006, p. 86).
  6. Pauline Goldmark (1874-1962), settlement worker e attivista sociale di origine ebraica, condivise con Frances Perkins l’esperienza nella Consumer’s League. In seguito fu ricercatrice della Russell Sage Foundation e vicedirettrice della Scuola di Social Work di New York.
  7. Alfred Emmanuel Smith (1873-1944), politico democratico di origine irlandese, era rimasto orfano fin da piccolo e per la sua cultura da autodidatta, senza titoli formali, era spesso preso in giro dagli avversari. Le sue spiccate doti di amministratore gli valsero più rielezioni al governatorato di New York e una nomina come candidato democratico alle elezioni presidenziali del 1928, dalle quali uscì sconfitto, in modo particolare, per il pregiudizio nei confronti della sua estrazione cattolica. Nutrì sempre una profonda ammirazione e stima per la competenza di Frances Perkins, che aveva conosciuto come «lobbysta» che stazionava presso il Parlamento a patrocinare «la legge sulle 54 ore» per la fissazione di un massimo di ore lavorative per le donne e i minori di 18 anni di età.
  8. http://www.ssa.gov/history/fperkins.html

 

Fonte: La rivista del lavoro sociale

Per informazioni, suggerimenti o richieste sul progetto contattaci all'indirizzo mail: info@memoriesociali.it