Trascrizione Videointervista a Duccia Calderari (05.02.2007)
Mi chiamo Jolanda Calderari, da tutti conosciuta come “Duccia”, nata il 13 febbraio 1911 a Trento. Mi ricordo qualcosa della mia infanzia. Ero molto fiera di aver avuto un nonno garibaldino, infatti lui ha lasciato un suo diario che ho letto varie volte. Certo, i suoi genitori devono aver sofferto molto perché, non aveva ancora compiuto i diciotto anni, che aveva deciso insieme a un suo compagno, un certo “Boz”, di scappare di casa per andare a Venezia durante l’assedio del ”48/”49. Prima di scappare di casa, aveva rubato i soldini alle sorelle ma erano insufficienti ed ha attinto anche alla cassa del padre. Per fortuna che il suo amico aveva provveduto una guida perché, certo non potevano partire col treno, sarebbero stati subito arrestati. Sono arrivati con una carretta fino a Bronzolo, poi a piedi con gli scarponi da ghiaccio su al Passo di Costalunga, poi scesi a Moena, da qui sempre a piedi fino al Passo di San Pellegrino, poi di lì scesi ad Agordo, poi hanno risalito il Piave fino a Treporti passato il ponte del Piave, sono arrivati a Treporti, proprio alle porte di Venezia e lì si sono arruolati nei Cacciatori delle Alpi. Hanno preso parte a vari combattimenti, hanno preso anche un forte. Combattevano sotto Pier Fortunato Calvi. Lui si è preso anche il colera, è stato proprio in punto di morte poi, per fortuna, si è ripreso. Adesso io non ricordo quanto tempo sia stato via di casa. Comunque, sono stata educata in casa proprio anche all’amor di patria. E noi… Tanto io con mia sorella sapevamo che sarebbe stato bene nella vita, non soltanto occuparsi della propria famiglia ma dare il nostro contributo per il bene del proprio paese, della propria città. Mi ricordo che io da giovane, da bambina anche, ero entusiasta del Risorgimento. La mia mamma, la domenica, era solita invitare per la merenda dei miei cuginetti, più giovani di me ed io avrei voluto che partecipassero al mio amore per i morti per la patria. In quel periodo, mi ricordo, leggevo “i martiri di Belfiore” ma pensavo: “se io leggo a loro qualcosa, si annoiano”. Allora la sera prima, mi ricordo, imparavo la lezione – come la lezione per andare a scuola – poi, il giorno dopo, raccontavo a loro la storia di Ciro Menotti, di Tito Speri, così e loro accettavano. Poi, non ricordo se sia stato durante le medie ma forse durante le scuole superiori, desiderai frequentare un corso per diventare crocerossina. Pensavo: “non si sa mai”. E difatti mi è stato utile l’8 settembre del ”43. Mi presentai, mentre i miei genitori si preparavano a lasciare la casa di città per andare in un casolare di campagna che avevamo sulle pendici del Bondone, ma facevano questo tutte le famiglie di Trento che potevano, perché era pericoloso, con i bombardamenti continui che c’erano, rimanere in casa. Io, invece, sarei stata più contenta che rimanessero in città, perché volevo presentarmi all’ospedale ma tanto, in tempo di guerra, tutti giravamo in bicicletta, potevo scendere da campagna la mattina, poi risalire la sera. Quando mi sono presentata all’ospedale, mi ricordo che il medico che mi ha accolta era molto contenta perché ne avevano bisogno. C’erano tanti feriti, tanto che mi ha detto: “solo Lei viene!”, sperava ci fossero tante altre infermiere. Al momento ero sola, proprio. Quei primi giorni sono stati piuttosto esaltanti, perché la città era stata presa dai tedeschi e aspettavamo, da un giorno all’altro, l’irruzione all’ospedale perché le SS sarebbero venute a contare quanti soldati ammalati potevano essere fatti prigionieri. Allora, in quell’epoca c’è stata una grande gara in tutto l’ospedale, dal primario, ai medici, agli infermieri, alle infermiere, alle suore: chi portava una giacca, chi un paio di pantaloni, chi gli scarponi per fare scappare il più soldati possibile. Mi ricordo il dottor Pasi, che in quell’epoca lavorava all’ospedale, era rimasto con l’unico vestito che aveva addosso. Quando vennero i tedeschi, trovarono proprio un numero esiguo, perché quasi tutti erano stati fatti scappare. Anzi, mi ricordo, quando una mattina, cominciando dal primario poi tutti i medici, poi in fila anch’io, facevamo il giro delle corsie per visitare gli ammalati, di tanto in tanto si arrivava a un letto senza ammalato. Chiedeva: “dov’è questo ammalato?” ma ormai c’era un’intesa generale: “sarà in giardino” e, mano mano che si andava avanti, il numero degli ammalati che erano in giardino era sempre maggiore. Sicchè, quando vennero poi i tedeschi trovarono proprio un numero esiguo, soltanto quegli ammalati che erano immobilizzati a letto per una gamba in trazione, una pallottola nel polmone… Così, proprio pochissimi. Poi, più tardi venni a sapere che nell’ospedale un gruppo di medici lavoravano clandestinamente. Io ero desiderosa di farmi accettare da loro, non certo per qualche idea politica, niente di tutto questo, ma perché non potevo assolutamente sopportare che per le vie della città di Cesare Battisti passassero continuamente soldati tedeschi. Non lo potevo sopportare. Quando venni accettata nel loro gruppo, entrai nella Resistenza. Assunsi subito il nome di “Teresa”, dal ricordo di una donna del Risorgimento, la Teresa Casati Confalonieri, che avevo tanto amato. Da principio misi subito a disposizione la mia casa: arrivavano delle persone da fuori Trento per conferire con i nostri e venivano ospitati in casa mia. Mi ricordo il giorno in cui fu arrestato Manci: tutti erano spaventati. Vennero in sei a chiedere asilo per quella notte. Poi un giorno mi portarono a casa una giovane signora, gialla in viso, spaventatissima. Avevano fatto irruzione a casa sua per arrestare suo marito, Carlo Scotoni. Per fortuna non lo trovarono in casa: era nel suo asilo presso la canonica di Cognola, dove lavorava e dove si trovava, per fortuna, anche in quel momento. Poi anche lui venne in casa mia per ritrovare la moglie, si fermarono a dormire e il giorno dopo scapparono per Mantova, dove si trovava la famiglia della moglie. Poi, in seguito, mi usarono come staffetta. Mi ricordo, un giorno dovetti andare a Cavalese a consegnare una lettera ai farmacisti che erano collegati con i partigiani del Lagorai, le montagne intorno a Cavalese. Ci fu un po’ di confusione all’inizio perché non volevano accettare, o non si fidavano, della mia parola d’ordine. Alla fine, per fortuna, ci siamo messi d’accordo, ho lasciato la lettera e, poi, tutto il giorno sono rimasta nascosta in un albergo di Cavalese, perché sapevo che molti trentini erano rifugiati a Cavalese e non volevo farmi conoscere. Un altro giorno mi mandarono a Padova, mi consegnarono un plico di volantini che, tornata a Trento, avrei dovuto divulgare. Però, al ritorno, mi sarei dovuta fermare a Verona, mi avevano dato un indirizzo con una lettera. A Verona ho suonato a lungo al campanello di quell’indirizzo ma non c’era nessuno in casa. Ero un po’ spaventata perché cominciava a essere scuro, c’era il coprifuoco, dove sarei andata a dormire? Il mio treno per Trento partiva il giorno dopo alle sei di mattina. C’era poco da pensare: mi trovavo al quarto piano di quell’edificio, mi sono sdraiata per terra posando la testa sul valigino che conteneva questi volantini. Erano volantini che avevo apprezzato molto, perché c’era un appello di Concetto Marchesi a tutti i partigiani di mettere da parte i partiti: lo scopo era unico per tutti, bisognava combattere solo con una finalità e questo essere tutti uguali per uno scopo mi piaceva molto. Comunque avrei dovuto svegliarmi alle cinque di mattina per dirigermi a prendere il treno delle sei ma penso che avrei potuto dormire poco in quel letto, così poco soffice. Inoltre, era tutto buio, non potevo neanche vedere il mio orologio ma, per fortuna, c’era un campanile nel vicino fabbricato il quale scandiva le ore ogni quarto d’ora. Perciò alle cinque, giù di fretta, non ci vedevo assolutamente niente, tanto che ho premuto un bottone alla parete ma non era della luce, era un campanello! Allora, ancor più spaventata, giù per le scale di corsa, come potevo, poi fuori il silenzio più assoluto, non c’era anima viva col coprifuoco. Dovevo fare in fretta a dirigermi verso la stazione, sentivo soltanto il rumore dei miei tacchi sull’asfalto. A un certo punto, vedo in lontananza una persona: chi sarà stato? Si avvicina: era un repubblichino, il quale mi dice: “ma non sa che c’è il coprifuoco?”, “certo che lo so, ma sono dovuta venire a visitare un mio zio”, mio zio c’era veramente ma è logico che non ero andata a trovarlo. “Io assolutamente devo prendere stamattina il treno delle sei perché devo lavorare a Trento. Anzi, dal momento che L’ho incontrata, perché non mi scorta Lei fino alla stazione, almeno sarei più sicura”. La sicurezza era che avevo a sinistra il repubblichino e a destra il valigino con i miei volantini. Insomma, arriviamo alla stazione, il treno per fortuna non si è fatto aspettare molto. Salita sul treno e seduta su un pancone di terza classe, almeno ero salva. Beh, così, un po’ le mie avventure di quell’epoca. Fu in quel periodo che, al suono dell’allarme, esco di casa e fui colpita a vedere un gruppo di ragazze al di là della strada le quali, anziché fare come noi che cercavamo di raggiungere il rifugio al più presto possibile, perché molte volte, quando suonava l’allarme, gli aerei erano già sopra di noi, per cui dovevamo arrivare presto nel rifugio per metterci in salvo. Queste ragazze, come niente fosse, indugiavano lungo la strada a portare aiuto alle persone in difficoltà: una vecchina, incapace di muoversi, si fermavano, se la prendevano sotto braccio e poi, bene o male, la trascinavano al rifugio oppure una mamma con tanti bambini piccoli. Io fui talmente colpita da questo coraggio eroico che subito mi riprometto di prendere contatto con loro. In quell’epoca avevo tanti amori, oltre all’amor di patria: l’amore per l’arte, la montagna ma anche l’amore per i poveri avevano trovato un grande spazio nel mio cuore, perciò non volevo perderle di vista. Mi ricordo la prima volta che andai a trovarle per conoscerle, diventammo subito amiche e, dopo quella prima volta, quasi tutti i giorni, finito il mio lavoro, andavo a visitarle. Mi accoglievano sempre festosamente e, malgrado l’infuriare della guerra, erano sempre nella gioia. Ma io ero attirata dal fatto che mi mettevano al corrente, ogni volta che andavo, di quello che leggevano nel Vangelo. Il Vangelo, dunque: ma io lo conoscevo, forse? Non lo avevo mai letto. E’ ben vero che la domenica in chiesa il sacerdote ne leggeva un brano, in latino poi, che poi meditava. Le persone più devote ne avrebbero portato dei buoni propositi che sarebbero poi durati, sì e no, due/tre giorni ma poi tutto finiva lì. Queste ragazze non solo lo leggevano e lo meditavano ma immediatamente ne mettevano in pratica, frase per frase, alla lettera, senza riduzioni, senza annacquamenti. Era questa la novità per me, era questo che mi affascinava. In questo gruppo – non l’ho detto prima – c’era Chiara Lubich, la quale un giorno mi accoglie più festosamente del solito, quando andai a visitarle e mi dice: “senti cosa abbiamo letto oggi nel Vangelo. Vi do un comandamento nuovo: amatevi a vicenda come io ho amato voi. E’ quel “come” che ci dà la misura: Gesù come ci ha amati? Donando la vita per noi”. Mi ricordo che ci fu un silenzio generale fra di noi. Dopo un po’, sento una vocina alla mia sinistra, di queste mie nuove compagne: “ma io sono pronta, sai, a dare la mia vita per te!”, poi alla mia destra: “io sono pronta, sai, a morire per te”. Tutte ci guardiamo in faccia: tutte eravamo pronte ad amarci l’una con l’altra fino a donarci la vita. Un giorno ero presente e suonano alla porta: era un povero che chiedeva l’elemosina. Avevano letto nel Vangelo: “qualunque cosa avrete fatto ai miei fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me”. Aprono la dispensa e tutto quello che ci trovano dentro lo donano al povero. Dico, tutto! A rischio di restare esse stesse senza pranzo o senza cena. Però questo non avveniva mai. Il Vangelo dice anche: “date e vi sarà dato”. Infatti, prima d sera, arrivavano sempre delle amiche, dei parenti, dei conoscenti a portare viveri, per loro o per i loro poveri, perché i poveri erano diventati di casa, ormai. Tutte le volte che andavano a chiedere l’elemosina, non uscivano mai a mani vuote. Un giorno si presenta un povero a Chiara Lubich a chiederle un paio di scarpe: aveva le scarpe tutte sbrindellate, rotte. Chiara, al momento, viveva con le sue compagne, non poteva avere di riserva delle scarpe da uomo. Poi, in tempo di guerra tutto era difficile, come faceva a procurarsi delle scarpe da uomo. Tutto era difficile. D’altronde, anche questo poveretto non poteva continuare a camminare con quelle scarpe. Perciò, piena di amore, gliele promette. C’era stato questo che… Alcuni giorni fa un mio zio mi aveva regalato un paio di scarpe che aveva comprato per sé ma erano troppo strette, inservibili. Allora dice: “potrei regalarle a un povero”, io al momento non avevo dei poveri e penso: “le porterò a Chiara, perché i poveri sono di casa, avrà qualcuno a cui donarle”. Però quella mattina non trovo nessuno in casa. Era tardi e anche io ero in ritardo, perciò le metto sotto il braccio e mi dirigo verso il mio lavoro, verso l’ospedale. Strada facendo, incontro proprio Chiara che usciva dalla chiesetta di Santa Chiara, che era vicina all’ospedale di allora, dove lavoravo anch’io. “Proprio te, Chiara” le dico “ti devo donare un paio di scarpe che potranno servire a un tuo povero”. Mi risponde: “mi occorrevano proprio. Mi sai dire il numero?” e io: “certo! Portano il numero 42”. Io ero all’oscuro di tutto, non sapevo che proprio la sera prima questo povero le aveva chiesto un paio di scarpe. E lei, in quella chiesetta che aveva trovato completamente deserta, con grande fede e grande fervore – così mi hanno riferito dopo – si era inginocchiata davanti al Crocifisso e così aveva pregato: “Signore, ho bisogno di un paio di scarpe da uomo numero 42 per te, nel povero”. Tutte le cose che avrete fatto a lui, le avrete fatte a me. Uscita di chiesa incontra me che, all’oscuro di tutto, le donavo queste scarpe. Cioè, il Signore aveva usato me come strumento per esaudire questa richiesta di Chiara. Certo, ha stupito tutte noi con questo fatto, non certo adesso perché adesso che il Movimento dei Focolari si è diffuso in tutto il mondo, di questi fatti ne succedono ancora. E molti anche. Intanto, un po’ di tempo dopo, c’era stato un grosso bombardamento su Trento, quello famoso che, forse, passerà anche alla storia: quello del 13 maggio. C’erano state tante case crollate, macerie, morti, feriti. Era stata colpita anche un’ala del nostro ospedale e anche alcuni morti, perciò non era più sicuro l’ospedale. Era necessario trasportare ammalati e attrezzature in un ospedale a Pergine, vicino Trento, che era più sicuro. E io, inviata come crocerossina in un rifugio. Nei rifugi doveva esserci un infermiere o un’infermiera in caso di qualche incidente. Ero stata mandata al rifugio di San Martino, in una zona molto a rischio perché vicinissima, in linea d’aria, alla linea ferroviaria che era continuamente bombardata. E’ logico, però, che le bombe non cadevano soltanto sui binari ma anche sulle case adiacenti e molte famiglie che abitavano vicino alla ferrovia erano rimaste senza casa. Chi non avesse avuto dei parenti o dei conoscenti che abitavano in qualche paesino vicino era costretto a rimanere nel rifugio tutto il giorno, dormendo la notte su una brandina. Per mangiare, panini. Allora, cosa facevo io, che ero addetta a quel rifugio? A mezzogiorno uscivo dal rifugio, il giorno prima avevo rifornito le miei compagne di verdure, legumi, ortaggi, le quali in quel frattempo stavano preparandomi un abbondante minestrone che avevano messo, poi, in un grande pentolone a due bracci. Per cui dovevo farmi aiutare da qualcuno a portarlo nel rifugio. Nessuno voleva aiutarmi, perché uscire a mezzogiorno era molto pericoloso: era l’ora in cui, generalmente, sorvolavano gli aerei alleati. Solo una ragazza accettava sempre di aiutarmi e venne. Al ritorno, poi, potevamo così distribuire una ciotola di minestrone caldo a queste povere famiglie, rimaste completamente senza niente, senza casa. Mi ricordo che il terzo giorno, poi, il custode del rifugio viene da me e mi dice: “ma perché va con quella ragazza? Se sapesse chi è…”, io lo sapevo benissimo: era una prostituta. Però era l’unica che voleva aiutarmi. Bisogna non giudicare e accettare il bene da tutti. In quel periodo io andavo a Bolzano tutte le settimane. A Bolzano c’era il Kommandantur, c’erano le carceri, il campo di concentramento, dove delle famiglie soffrivano il freddo. Io andavo tutte le settimane a portare degli indumenti caldi per queste famiglie. C’era, poi, un punto determinato dove mi rivolgevo per avere notizie riguardanti al salute dei nostri carcerati. Ce n’erano molti e sapere, essere informata se per caso, in un momento di debolezza durante le torture, qualcuno avesse parlato, avesse fatto dei nomi. In questo caso, al ritorno, avrei dovuto informare queste persone che erano state nominate perché scappassero. Però, per fortuna, nessuno aveva parlato. Nessuno parlava, tutti eroici. In genere, io mi recavo in bicicletta ma era un pochettino pesante e, allora, avevo trovato un altro mezzo: con la mia bicicletta e i pacchi con gli indumenti andavo sulla strada ai margini della strada provinciale, dove passavano in continuazione dei camion tedeschi, alzavo la mano e uno si fermava, mi issava a bordo con la mia bicicletta e i miei pacchi e mi portavano fino a Bolzano, molte volte cantando delle canzoni, quegli inni cadenzati tedeschi. Poi mi depositavano nelle vicinanze di Piazza Walther. Scendevo e c’era il silenzio più assoluto perché, in genere, arrivavo anche lì verso mezzogiorno, l’ora critica del passaggio degli aerei. Le famiglie preferivano stare in casa perché, in caso di allarme, erano più vicine al rifugio. Poi, dovevo attraversare la piazza di fretta per arrivare al punto convenuto. Anche lì non c’era nessuno, era deserta. Rasentavo il Duomo perché pensavo, in caso di allarme, mi rifugiavo in chiesa. Per fortuna non è mai successo niente. Intanto, si va avanti e arriviamo finalmente alla Liberazione: tutti contenti, almeno era finita la guerra. Un po’ di tempo dopo, senza quasi avvedermene, mi trovo a far parte del primo consiglio comunale, il primo dopo la Liberazione. Intanto la vita comincia a normalizzarsi. Chiara Lubich si trovava a Roma perché voleva diffondere il suo ideale dell’unità, della fratellanza universale. Chiara mi chiama a Roma perché desiderava che mi mettessi a disposizione di quest’opera. Vado, lascio in tronco il mio lavoro – facevo in quel periodo l’assistente sociale – e a Roma sono rimasta vent’anni, segretaria niente meno che di Iginio Giordani. Ma non come segretaria di lui come parlamentare, ma segretaria di una persona che lavorava per quell’opera. In quel periodo egli era impegnato in un suo giornale, un quindicinale, “La via”, di carattere di critica religiosa, sociale e letteraria. Io avrei dovuto, per il giornale, tradurre degli articoli dal francese e dall’inglese – il francese lo conoscevo bene, l’inglese poco ma da arrangiarmi – poi c’era la correzione delle bozze e l’impaginazione, quella mi piaceva tantissimo. Ho cambiato proprio la faccia del giornale: era troppo nero, lo volevo più luminoso con anche molte riproduzioni. Questo da principio, poi in seguito c’era da lavorare nell’Ecumenismo. Arrivavano gruppi di anglicani dall’Inghilterra, di ortodossi, di riformati dalla Svizzera, evengelici dall’Austria e dalla Germania… Chiara teneva dei raduni per tutti e io dovevo dare il mio contributo per accompagnarli anche nella visita alla città di Roma. Direi che Iginio Giordani era veramente una persona squisita: io ammiravo in lui soprattutto la sua semplicità e la sua umiltà. Quando, nel congedarmi da lui qualche volta perché mi dovevo recare ad un convegno, ad una riunione, gli chiedevo: “che consiglio mi dai?”, mi rispondeva: “ricordati di metterti sempre all’ultimo posto. Credilo, conviene”. Mi ricordo che un giorno mi trovavo nello studio, avevo appena finito di distribuire negli scaffali cronologicamente tutti i suoi libri – cento o poco meno – e mi consegna alcuni libricini o quadernetti, uno più piccolo e uno più grande, scritti a matita o a penna. Mi dice – per raccontare della sua semplicità –: “questo è il mio diario. Vorrei che tu mi dessi il tuo parere”. Conosceva tante personalità, proprio consegnarli a me! Per dire la sua semplicità. Conoscevo benissimo la sua calligrafia, perché avevo trascritto a macchina tanti di quei suoi discorsi, di quelle sue conferenze… Allora, molto felice, comincio a leggere questi diari. Alla fine, gli dico: “ma non hai mai pensato di pubblicarli? Sarebbe il tuo libro più bello”, “davvero?” dice. Allora li ha dati alla stampa e questo diario venne alla luce col titolo “diario di fuoco” subito dopo la sua morte. Se desiderate, ve ne posso regalare una copia, non oggi ma in seguito senz’altro. Per dire la sua semplicità. Mentre mi trovavo fuori Roma, tornavo nella mia casa normalmente a Natale perché desideravo riunire la mia famiglia, ci tenevo tanto all’unità della mia famiglia e poi anche in estate, durante le vacanze. Ero molto attaccata alla mia casa forse perché, per fortuna, avevo passato un’infanzia e una giovinezza molto armoniose, con due genitori meravigliosi, pronti a dare a tutti. Invece che andare in montagna, preferivo fare le vacanze in casa mia. Un’estate viene a trovarmi una mia compagna focolarina la quale, per circostanze varie successe, era costretta insieme alle sue compagne a lasciare la sua abitazione per cercarne un’altra. Addirittura cercavano proprio un casolare, una villa nelle vicinanze della mia casa, dove potersi trasferire. Quindi mi dicono: “forse ci puoi aiutare nella ricerca”. Tutte le settimane telefonavo a loro per chiedere: “come va con le vostre ricerche?” e mi rispondevano sempre: “ancora non abbiamo trovato niente. La Madonna saprà”. Io, giorno per giorno, venivo a convincermi sempre di più che questa mia casa sarebbe stata adatta a loro. Prima abitavo con la mia famiglia, che ospitava sempre, in continuazione, parenti ed amici. Al momento ero sola, perciò sarebbe proprio stata adatta per le mie compagne. Era anche grande perciò, oltre che venire ad abitare, potevano adibire alcuni locali per studi; poi c’era una sala grande, adatta per riunire molte persone. Insomma, giorno per giorno, sentivo dentro di me una voce che si insinuava e mi convinceva che questa casa sarebbe stata adatta proprio a loro. Alla fine, ho deciso, ho telefonato alle mie compagne: “ve l’ho trovata io la casa”. Cinque minuti dopo, era qui una compagna. “Ecco” dico “questa sarà la vostra casa, ve la dono. Darà gloria a Dio oggi e nei secoli futuri”. Sono stati molto generosi perché mi hanno concesso di vivere in un’ala di questa mia ex casa, dove vivo tuttora. Ma non crediate che sia sempre in poltrona a sferruzzare e ad aspettare la morte: non ho il tempo, perché adesso questo Movimento dei Focolari si è diffuso in tutto il mondo e spessissimo arrivano gruppi anche dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, forse anche dalle Isole Fiji. Vogliono venire qui per conoscere i luoghi dove è nato questo movimento e sentire anche la viva voce delle esperienze di quei primi tempi. Ecco perché non ho tempo di stare tanto in poltrona ad aspettare la morte. Così, avrei finito con le mie poche esperienze o alcune esperienze della mia lunga vita. Perché è una lunga vita che attraversa tutto un secolo.
Intervistatore. Cose da dire ne ha. Io avrei due domande da farLe.
D. Volentieri, se so rispondere.
Intervistatore. Del periodo, invece, precedente alla seconda guerra mondiale e, quindi, la vita sotto il regime fascista, se ha qualche ricordo di com’era la situazione e la vita in quel periodo.
D. Beh, veramente non mi occupavo di politica. Qualche volta, quando facevo la crocerossina, non volevo mettermi assolutamente lo stemma fascista, mi rifiutavo. Allora avevo le sgridate della mia capo-volontarie.
Intervistatore. Invece dopo la guerra, prima dei… Ha accennato al fatto che ha partecipato al primo consiglio…
D. No, politicamente no. Perché avevo conosciuto questo movimento e ben presto sono andata a Roma e ho lavorato per questo movimento, perciò non mi occupavo di politica.
Intervistatrice. Lei è stata anche consigliere comunale.
D. Beh, al primo consiglio comunale del…
Intervistatrice. In che anno?
D. Dopo la Liberazione.
Intervistatrice. E il sindaco era?
D. Sa che non me lo ricordo neanche! Non era, mi pare, Gigino Battisti. Io ero molto amica della Livia.
Intervistatrice. Ed era l’unica donna in consiglio comunale?
D. Sì, ero l’unica donna, mi pare.
Intervistatrice. Penso proprio di sì, vero?
Seconda intervistatrice. No, c’era anche un’altra donna…
Intervistatrice. E chi era?
Seconda intervistatrice. Valeria Julg
D. Ma sa che non me lo ricordo questo.
Seconda intervistatrice. Valeria Julg, sposata con Carlo Julg di Trento ma lei era nata in Austria.
D. Mi ricordo che con la Livia Battisti avevamo tanto aiutato le famiglie sinistrate di Trento. Lei era una bravissima organizzatrice, aveva diffuso presso tutte le case di Trento di andare in soffitta e raccogliere mobili, suppellettili, qualsiasi cosa che potesse essere utile per le famiglie sinistrate. Poi siamo andate in giro per tutta la città con dei camion per raccogliere tutte queste cose che erano nelle soffitte. Nel frattempo, le famiglie sinistrate scrivevano di cosa avevano bisogno in modo da poterle fornire.
Seconda intervistatrice. Lei ha memoria della prima volta in cui le donne hanno votato nel ”46, quando c’è stato il referendum?
D. E’ stato qui o fuori? Sa che non me lo ricordo. E’ stato a Trento, probabilmente. Ah, sì nel ”46, ero ancora a Trento. Veramente è stato abbastanza normalmente, anche… Se fosse successo da sempre, direi.
Intervistatrice. Posso chiederLe una cosa? Lei ha lavorato in ospedale, era crocerossina: chi era il primario in quegli anni? Il professor Pezcoller?
D. Chi c’era all’ospedale? Quando sono entrata io, ero l’unica, tanto è vero che il medico mi ha detto: “come mai Lei da sola?”. Più tardi, negli anni seguenti, quando prestavamo servizio soprattutto all’ospedale militare, c’erano anche molte altre. Però all’inizio, quando ero arrivata io, l’8 settembre, ero l’unica.
Intervistatrice. E il primario chi era?
D. Il Pezcoller. Tanto è vero che, per essere sicuro, lui lavorava alle sei di mattina. Perciò io, essendo in campagna, dovevo alzarmi alle quattro. Non avevo avvertito la mia mamma, perché le mamme sono sempre più paurose. Avevo avvertito la mia nonna, la quale mi svegliava alle quattro di mattina, potevo alzarmi, prendere la biblicletta ed essere alle sei, perché il Pezcoller ci teneva che fossi presente durante le operazioni.
Seconda intervistatrice. Vorrei chiederLe: Lei ha detto prima che era assisistente sociale…
D. In seguito, più tardi.
Seconda intervistatrice. Ha fatto la scuola?
D. L’ho fatta dopo la guerra, ero già anzianetta. Perché da principio non lavoravo, non erano abituate le donne a lavorare. Ma volevo fare qualcosa e, allora, ho fatto la scuola, ero con le ragazzine che avevano finito le scuole superiori. Pur essendo anzianotta, ho voluto fare la scuola e poi…
Seconda intervistatrice. Come assistente sociale dove ha lavorato?
D. Ho lavorato qui a Trento. Da principio lavoravo per i minori e le madri nubili poi in seguito, addirittura, per le coppie che volevano separarsi.
Altra interlocutrice. Duccia, quando hai deciso di fare la tesi sui minatori in Belgio, dicevi che hai fatto la no global.
D. Ero assistente sociale e ho deciso di preparare una tesi sulle condizioni dei nostri lavoratori nel Belgio e andai a Mons. Prima, mi ricordo, andai a Milano, dove erano in partenza i nostri lavoratori per il Belgio. Presi contatto con una famiglia perché, andando a Mons, desideravo essere ospite loro. Perciò, quando mi recai lì, mi ricordo che scesi anche in miniera, fino a mille metri sotto. In vena ero. Mi ricordo che quando questi poveretti si sono accorti di me – era una situazione terribile, un caldo! Erano a torso nudo – si erano commossi a sentire la voce di una donna. E’ logico che i nostri italiani erano sempre in vena, con un rumore terribile, con questi martelli Piqueur in continuazione… Invece i belgi lavoravano la superficie. Io mi ero ribellata a questo e mi sono recata persino al consolato. Vivevo in casa col papà, la mamma e una sorella e mi ricordo che sono stata educata sempre all’amor di patria, poi sapevo – ma sarò stata educata così – che avremmo dovuto nella vita non solo, se possibile, pensare alla propria famiglia ma dare il nostro contributo per il bene del paese, per il bene della nostra città. Del resto, i miei genitori ne erano l’esempio, perché il mio papà ha dato il suo contributo per la città in un certo periodo, essendo il presidente dell’ECA, Ente Comunale Assistenza, poi è stato il presidente della SAT, la Società Alpinisti Tridentini. Anche la mia mamma non lavorava solo in casa: è stata la presidente della Dante Alighieri, mi pare fosse un comitato di carattere culturale. Poi lavorava tantissimo per la Lega Antitubercolare, perché in quel periodo la tbc era molto diffusa e lavoravano per fornire i medicinali alla classe meno abbiente. Insieme al dottor Pergher avevano istituito un preventorio a Monte Vaccino per le ragazze più gracili, più facilitate a contrarre il morbo. Aveva un gran da fare per la Lega Antitubercolare.
Seconda intervistatrice. Come si chiamava Sua mamma?
D. Emma Disertori. Era parente del Beppino Disertori.
Seconda intervistatrice. E, invece, il lavoro del papà qual era?
D. Era banchiere della Banca Calderari.
Seconda intervistatrice. Quando Lei fu nominata in consiglio comunale, era contenta di questa nomina?
D. Beh, contenta… Mi sono trovata quasi all’insaputa, proprio.
Intervistatrice. Quali sono gli anni in cui Lei è stata in consiglio comunale?
D. Mamma mia… Quanti anni avrò avuto? Sulla trentina, penso.
Seconda intervistatrice. Sono stati dei mesi, solo nel ”46.
D. Forse dopo, sui trentacinque. Basta calcolarlo, cos’era.
Altra interlocutrice. Trentacinque. Era il 1946.
Intervistatrice. E’ stata la prima donna in consiglio comunale a Trento.
D. Sì, dopo la Liberazione. Mi hanno mandato anche il riconoscimento.
Altra interlocutrice. Ti ricordi qualche cosa di quel periodo?
D. No. Proprio niente.
Seconda intervistatrice. Dove vi riunivate? Dov’era il consiglio? Dove si riuniva il consiglio?
D. Mi pare una volta in settimana. Forse un po’ di più i primi tempi.
Altra interlocutrice. E dove stava il consiglio comunale?
D. Mi pare al Castello del Buonconsiglio, vero?
Seconda intervistatrice. Non so se la sede era già in via Belenzani o al Castello. Era al Castello, vero?
Intervistatrice. Bene, Le facciamo anche i nostri complimenti.
D. Mi dispiace, forse non ho dato delle notizie come speravate…
Intervistatrice. Ha fatto una sintesi lucida e perfetta.
D. Un po’ io ho dovuto raccontare la mia vita…
Intervistatrice. Era quello che noi volevamo.
D… Almeno i momenti salienti.
Altra interlocutrice. Duccia, la signora voleva sapere: quando eravate fuori sfollati che tu venivi giù in bicicletta, dove stavate? In che paese?
D. Non era un pasese, sa? Dopo la svolta che porta a Sardagna, c’è una villa Maestranzi: lì a due passi. Tanto che, quando c’era l’allarme, andavamo anche noi al rifugio insieme ai Maestranzi. Era una semplice casetta di campagna. Poi, mi ricordo che fu bombardato il ponte di San Lorenzo. Avevano costruito una zattera, più o meno sicura. Mi ricordo che il giorno del bombardamento non ero lassù, ero qui vicino a Cognola, a Tavernaro, dove era in affitto anche un mio parente, Benvenuto Disertori, lo zio del Beppino, che è un grande xilografo e voleva farmi il ritratto. Io stavo posando per lui quando sentiamo un grande fragore: bombardavano il ponte di San Lorenzo. Allora pensai: “come faccio io ad arrivare su alla mia abitazione?”, ero arrivata lassù con la bicicletta. Perciò, subito sono scesa e sono dovuta andare fino a Sant’Ilario di Rovereto, attraversare il ponte e poi, in bicicletta, fare tutta la riva opposta e arrivare lassù. Poi, i giorni seguenti, potevo rientrare a Trento su questo zatterone e andare all’ospedale.
Intervistatrice. E’ cambiato molto in questi ultimi anni.
D. Eh, mamma mia! Tutti in bicicletta…
Intervistatrice. Che cosa ne pensa Lei della situazione…
D. Della bicicletta?
Intervistatrice. No, no. Della situazione di oggi, del mondo d’oggi.
D. Un brutto mondo… C’è un grande cambiamento nel mondo. E’ per quello che c’è questa confusione. Un completo cambiamento.
Seconda intervistatrice. Lei ha nominato delle persone, dicendo che hanno avuto un comportamento eroico.
D. Mi pareva, perché preferivano aiutare i poveri piuttosto che mettere in salvo la loro persona.
Seconda intervistatrice. Ma sono stati quelli dei tempi eroici, dei tempi particolarmente difficili, dove alcune persone…
D. Sì, veramente. Loro non si curavano, Chiara con le sue compagne, dei bombardamenti, loro si curavano dei poveri.
Seconda intervistatrice. C’è stato anche il coraggio di quella donna prostituta, che l’aiutava…
D. Anche lei, brava. L’unica!
Seconda intervistatrice. Quindi c’era il coraggio di alcune donne…
D. Poverina… Doveva essere una cameriera del ristorante della stazione e ogni mattina mi portava una pagnottella di pane bianco che io, poi, donavo a un vecchietto che veniva sempre a rifugiarsi nel mio baracchino, lì, del rifugio. Era senza denti, poveretto, almeno questo pane bianco che mi regalava questa cameriera…
Seconda intervistatrice. Anche Lei, in alcuni momenti, è stata…
D. Beh, sa, io ero infermiera, quindi… Era anche normale. Non si pensava a questo. Si pensava a cercare di salvare delle vite, non la propria.
Altra interlocutrice. Duccia, non hai finito di raccontare il tuo comportamento no global in Belgio.
D. Ah, bene. No, perché, veramente, poveretti… La vita dei nostri emigranti in fondo alle miniere era terribile, tanto che sono andata al consolato e mi son ribellata: “non pensate ai nostri lavoratori italiani, sempre in fondo alle miniere?”. E, poi, sono andata a visitare tanta ammalati di silicosi. Mi sono indebitata per comprare biscotti da portare a questi poveretti. Ma questo console non mi ha risposto niente. Cosa avrebbe dovuto fare… Però, io mi sono ribellata.