Trascrizione Videointervista a Agnese Fiorentini (18.09.2006)
A. Quando è tornato dalla guerra – tornato per modo di dire, insomma – ha ripreso il posto e poi, da lì, è stato nominato vicedirettore della Banca Popolare e poi è diventato direttore. E anche lì ha fatto tanto lavoro, ha aperto quattordici filiali, ha fatto una sede centrale a Milano, insomma, molto impegnato e la banca gli ha dato tante soddisfazioni. L’ha fatta fiorire, proprio. E il figlio, questo al quale io ho dato la casa, era dipendente sempre della Banca Popolare, dell’associazione delle banche popolari a Milano e, poi, gli è stato offerto questo posto a Francoforte da questa banca, che gli ha dato l’incarico della filiale di Milano. Dopo l’11 settembre è rimasto senza niente: in otto giorni gli hanno detto… Il giorno dopo il bombardamento, hanno deciso così, l’hanno chiamato e gli hanno detto: “Lei guardi che da oggi è libero, perché abbiamo deciso di fare questo”. Una banca privata, che aveva cento anni, quindi abbastanza solida, eppura ha preso questa decisione. E lui è rimasto disoccupato. Trovare un impiego di analista era stato impossibile, anche perché proveniva da un’esperienza di un certo livello, per cui le banche piccole non ne avevano bisogno oppure ne avevano bisogno ma non potevano assumere uno di alta esperienza, perché avrebbe pesato troppo sul bilancio. E così, allora, lui si è messo con la sorella e con il cognato e hanno fatto questa società di informatica. Si occupano di preparare dei programmi per il computer e lavorano. Ha dovuto cambiare mestiere completamente, anche se col computer aveva una certa dimestichezza. Poi questi quattro fratelli si sono sposati e tutti hanno diversi figlioli, per cui io ho undici nipoti e quindici pronipoti, per cui per intanto la dinastia sta in piedi, in qualche maniera. Però di questi pronipoti, il più anziano e l’unico già in carriera è geologo in Australia, che recentemente hanno chiamato a Vancouver per tenere delle conferenze e un seminario. L’unico che si guadagna da vivere, gli altri sono tutti ancora ragazzi. Adesso abbiamo due pronipoti, una che è figlia della mia nipote medico che è a Pavia ed ha sposato un professore del Policlinico, che è anche cattedratico e hanno due figlie: una la più anziana, quest’anno farà il secondo anno di medicina. Agli esami di stato è stata la prima in assoluto e aveva fatto il concorso per andare alla Normale di Pisa, però lì non c’era medicina, hanno psichiatria ma non medicina. Ha dovuto fare un concorso che erano in mille, o che so io ed è stata la prima in assoluto. Poi ha fatto il concorso per andare al San Raffaele, all’università San Raffaele e, anche lì, è stata la prima in assoluto. Poi ha provato anche a Pavia ma è stato un concorso così, per onor di firma, dove lei ha studiato e poi ha il padre, cattedratico e la madre sono tutti e due all’ospedale San Matteo, anche lì è arrivata prima però dice: “io a Pavia non… Anche se abito qua, non voglio fermarmi a Pavia perché avrei mio padre come professore e, allora, sarei subito tacciata come raccomandata di ferro”. Così è andata al San Raffaele. Quest’anno ha fatto il primo anno e ha già avuto delle segnalazioni molto interessanti. Poi un’altra, la cui mamma è farmacista, fa il terzo anno di farmacia e anche lei se la cava abbastanza bene. Poi abbiano tutti gli altri pronipoti, sono tutti nelle fasce media, elementare o all’asilo addirittura: ne abbiamo due di tre anni… Abbiamo una dinastia numerosa. Tutta gente che ha buona volontà, perché gradimenti non ci sono, anche se loro ne hanno avuto più di noi, perché noi dovevamo andare in collegio, il papà a un certo momento ha detto: “sentite, io non posso pagare il collegio per tutti”, allora io ho dovuto interrompere gli studi dopo la prima media perché dovevo stare a casa per fare compagnia o aiutare la mamma perché una sorella era di turno a tenere tutto l’altro gruppo di ragazzi, insomma, che andavano a scuola, al ginnasio, all’istituto tecnico… E io ho dovuto piantar lì perché il papà ha detto che lui, tutti in collegio, non aveva la possibilità di mandarci. Tanto più che poi, siccome eravamo agricoltori, è venuta la famosa carestia, anno del ”29.
Intervistatori. La crisi del ”29.
A. Quella ha distrutto tutto, ogni possibilità. Per cui, allora, ha preso la casa in affitto e le mie sorelle, in alternativa, andavano ad accudire i miei fratelli. Io dissi: “non mi rassegno a non continuare gli studi. Mi preparo in privato” e il papà mi dice: “guarda che devi arrangiarti” ma dico: “m’arrangio a far cosa?”. Allora sono andata in un collegio dove aiutavo le suore per l’asilo, così… Facevo un po’ la manovalanza e intanto andavo a lezione di latino, eccetera. Andavo con un signore che era severo e, poi, lezioni di italiano dal professor Angelini, che è stato un letterato, uno scrittore. Insomma, mi sono preparata in qualche maniera e sono andata a fare gli esami per essere ammessa alla terza magistrale, perché allora c’erano quattro corsi, diciamo, inferiori delle magistrali e tre corsi superiori. Allora sono andata ed è andata bene ed ho frequentato a Pavia la scuola superiore delle magistrali è lì finalmente sono riuscita a diventare maestra, nel ”32/”33 l’anno scolastico. Dopo c’era la questione del posto. Intanto i miei fratelli studiavano, tranne il medico, che si era laureato anche lui l’anno che ho preso la licenza ed era andato a fare il medico di primo pelo a Bussana in ospedale, nel consorzio antitubercolare di Pavia, dove curavano le forme ossee di tubercolosi. Allora, gli altri poi sono stati tutti richiamati e anche il medico, per cui io andavo in questo istituto di suore e facevo qualche supplenza e poi davo lezioni di latino e matematica e mi davano vitto e ottanta Lire di stipendio al mese. Dopo, una mia cugina – era anche lei maestra e disoccupata – aveva trovato una strada nelle scuole dell’ONAIR perché aveva conosciuto la Danieli, un’insegnante di Trento molto nominata, che le disse: “ma perché non vieni all’ONAIR, che è un’organizzazione che sta aprendo scuole nelle terre annesse all’Italia, cioè Alto Adige e Venezia Giulia” e lei, pur di avere un posto, è venuta e le hanno dato in Val Venosta, sopra Malles, un paesino dove hanno istituito una scuola italiana. Dicevo, questa mia cugina è stata assunta dall’ONAIR per questa sede e mi ha detto: “perché non fai anche tu domanda. Allora ho fatto domanda anch’io all’ONAIR e mi hanno assunto subito. La prima destinazione era l’Alto Adige a Rio Mulino, che è un paesino appena dopo Brunico. Io ho detto: “ma non conosco la lingua. Vado a insegnare l’italiano ma non so una parola di tedesco” perché noi studiavamo il francese nelle nostre scuole. Allora mi hanno dato un’altra sede in Istria, a Blascovich, che non è un paese: sono quattro case in mezzo a “sgrebeni” e basta. E a Blascovich, il comune di Santa Domenica d’Albona – come punto di riferimento noi avevamo Albona, che era lontana da questa sede quattordici chilometri – e quando… Eravamo in diverse maestre giovani in questi gruppi di case e allora sono andata, ho accettato questo posto e il paese era fatto di capanni, non c’erano case, l’unica casa che aveva il tetto di tegole era la scuola. La scuola… Si trattava di un’aula, abbastanza grande e sotto avevamo la stalla. Però non c’era acqua e ‘sti ragazzini erano di una miseria indescrivibile e, non avendo acqua, non potevi dirgli di farsi la doccia. E non avevo acqua neanche per me. Allora c’era una dolina, vicino al paese e in fondo scorre l’acqua, che sono quei fiumi sotterranei… Che, poi, sono diventate foibe. E allora mandavo a prendere l’acqua da una bidella e le davo venti centesimo al secchio. Io prendevo duecento Lire di stipendio al mese. Come alloggio, c’era la casa cantoniera, lontana da questa scuola almeno… Ci impiegavo quaranta minuti dalla casa dove alloggiavo a venire a scuola. Al mattino, qualche volta, c’era la Bora e dovevo fermarmi attaccata a uno scoglio, a un sasso perché era di una… Infatti gli arbusti erano tutti piegati nel senso della Bora. Ad ogni modo… E lì ho cominciato a insegnare ma loro non sapevano… Avevo più di sessanta alunni, perché erano dai sei ai quattordici anni, perché lì continuava l’obbligo a quattordici anni. E allora li ho divisi in gruppi: i più grandi venivano al mattino e le classi prima e seconda venivano il pomeriggio, Se non che, alle undici e mezza venivano tutti perché avevano la refezione, che consisteva nel latte col cacao e pane. Il pane se lo facevano loro ed era detto la “kruca”, fatto di frumento scuro mescolato con non so cosa e facevano una specie di polenta e poi la mettevano in una tortiera nella cenere e la coprivano di braci. Quando lo tiravano fuori, dopo ore, era pastoso, ancora bagnato perché non poteva cuocere ad una temperatura così bassa. E allora mi davano un pezzo di questo pane, che regolarmente non… Non si poteva mangiare, insomma. Il pane andavo a comprarlo a Santa Domenica, che distava cinque chilometri, era il comune dove c’erano altre insegnanti con le quali mi trovavo il giovedì. Erano insegnanti del luogo, anziane e ci davano tanti suggerimenti su come comportarci con questa gente, che era di una miseria anche culturale, perché non avevano mai avuto la scuola e vivevano di contrabbando, perché andavano a Fiume, che era zona franca, dove compravano il giovedì, anche i nostri scolari… Il mercoledì mi dicevano: “maestra, domani andiamo a Fiume: Le compriamo lo zucchero, …” e io: “non posso, vi ringrazio ma non posso, perché io non possono prendere le cose di contrabbando”. Ma dicevano: “cosa vuole, costa di meno” e io: “vabbè, costa di meno ma è così”. E allora il giovedì andavano in spedizione a piedi a Fiume. Il paese era nell’entroterra, cinque chilometri e la strada nazionale, che faceva Fiume-Pola, era distante cinque chilometri. Per andare ad Albona, per chi andava ad Albona e poi proseguiva per Pola, alla domenica ci trovavamo tutte le insegnanti, tutte sprovvedute, novelline perché erano quelle che non avevano posto nei loro paesi. Per andare erano quattordici chilometri, io, ma le altre ne avevano anche di più e qualcuna di meno. Ma non andavamo con la corriera, perché bisognava spendere due Lire ma a piedi. Stavamo lì alla messa e, poi, andavamo in questo negozio dove c’era di tutto – formaggio, … – e facevamo la provvista per la settimana. Compravamo il pane, il formaggio, il salame, un po’ di pasta e poi andavamo al bar a prendere il tè, alcune prendevano la birra e lì ho imparato a prendere il tè da un bicchiere grande così, in abbondanza, perché di solito nei nostri bar era una tazza e lì, invece, un gran bicchiere. Prendevamo un po’ del nostro pane con due fette di salame e mangiavamo e bevevamo. Poi, verso le tre, riprendevamo il cammino e una andava di qua, l’altra di là… Il giovedì ci trovavamo, quelle più vicine, cioè a cinque/sei chilometri. Quella di Fianona, dove c’era anche l’ufficio postale, era la più vicina a me, erano cinque chilometri, sulla costa. Era una padovana. Non si andava mai a casa, si andava a Natale e a Pasqua, non sempre a Pasqua, perché dopo c’erano le vacanze e spendere i soldi… Non avevamo la possibilità. Questa padovana, quando andava, portava tanta di quella roba… Mi ricordo, una delle ultime volte aveva portato delle anatre sotto grasso, perché non c’erano frigoriferi e il giovedì ci invitava da lei a mangiare l’anatra. Preparava l’anatra per tutte, eravamo cinque o sei. Qualche volta dovevamo fermarci a dormire perché o c’era brutto tempo o c’era qualche cosa che ci dovevamo… Ma lei aveva un letto solo, di quei letti grandi a una piazza e mezza e come faceva ad ospitarci tutte? Allora, aveva una bella panca e la metteva lungo il letto e noi ci mettevamo attraverso il letto. Ci ospitava a così. E poi al mattino presto via, perché guai ad arrivare in ritardo, anche se non c’era nessuno che ci guardava. Avevamo un senso del dovere… Infatti, una volta, quando avevo la sede a Mezzolago, andavo qualche volta a Crema dai miei genitori e andavo con la corriera da Riva a Desenzano, qui prendevo il treno e… Una volta, al ritorno, il treno ha avuto un ritardo, allora io ho telegrafato alla direzione di Trento che ero in ritardo di un’ora perché il treno aveva ritardo, in modo che loro hanno potuto comunicare al paese che la maestra era in ritardo ed ero giustificata. Avevamo un senso del dovere molto, molto profondo. A Blascovich sono stata… I primi tempi eravamo un po’ in difficoltà, non avendo conoscenza della lingua, neanche dei vocaboli fondamentali. C’era una bidella che sapeva qualche parola di italiano e allora la chiamavo e mi facevo tradurre da lei. Però a Natale avevano già imparato l’italiano. Li curavo moltissimo. Io entravo in questa specie di aula al mattino alle sette e mezza e uscivo alle sette di sera.
Intervistatrice. Parlavano dialetto?
A. Parlavano dialetto slavo. Lo slavo è già una lingua impossibile. E poi i bambini… Allora, avevo questi due gruppi, però li dovevo integrare, difatti dopo un primo tempo i capifamiglia, che erano minatori – andavano ad Arsia per le miniere di bauxite e di alluminio, uomini grandi e grossi – sono venuti lì a chiedermi, tramite la bidella, se scrivevo qualche cosa, avevano fatto delle domande in comune, così… E mi prestavo per forza, perché loro non sapevano l’italiano e allora gli facevo un po’ questo servizio civile. Poi le mamme: “il mio bambino è ammalato: cosa devo fare?” e io: “chiamare il medico”. Un giorno questo bambino con la febbre altissima… Dico: “chiami il medico” e lei: “il medico l’ho chiamato ma non viene” perché il dottore doveva venire da Santa Domenica ed era l’unico medico nel raggio di dieci chilometri. Allora sono andata io dal medico a pregarlo di venire: “stia tranquilla, è gente che non muore! Guariscono per loro conto, non hanno bisogno”. Allora io raccoglievo i dati possibili e telefonavo a mio fratello medico e dicevo: “senti, cosa devo fare” e lui mi diceva: “fai così, così… Compra questa medicina, fallo stare al caldo”. Quando io avevo tutte queste indicazioni, avvertivo la famiglia che sarei andata a visitare questo bambino e a portargli le indicazioni per la cura. Avvertivo la famiglia ma anche tutti gli scolari perché c’era una strada, un selciato con sassi grandi così, che faceva anche da torrente e i capanni erano tutti lungo questa specie di strada e, allora, avvertivo gli scolari dicendo: “guardate che oggi alle cinque io andrò dal vostro compagno, tal dei tali che, come sapete, è ammalato perché devo portargli le indicazioni del medico”. Allora loro avvertivano le famiglie e quando andavo, lungo la strada, ogni famiglia aveva fuori un tavolino con su pane, uova, una bottiglia di vino – che era aceto di quello proprio super naturale – e, man mano che io andavo, dovevo fermarmi a prendere o un bicchiere di latte o così, che era di capra il latte. E io dicevo: “guardate, non posso perché devo andare”, “allora quando ritorna”. Quando ritornavo, erano ancora lì col loro tavolo, con la loro roba e, allora, me la raccoglievano… C’era uno che la raccoglieva e me la portava a casa. A Natale, novanta uova! Dopo una visita della medicina, mi son trovata novante uova da questa tale che aveva fatto la raccolta. Nel ”43 sono stata comandata dal provveditore agli studi di Trento alla Croce Rossa Italiana. E qui abbiamo un opuscolo dove il presidente Disertori ha fatto un profilo della Croce Rossa di Trento, agganciandosi a quella di Bolzano, dove fa cenno anche della mia attività particolare. Perché nel ”43 dirigente del servizio assistenziale, fino al ”45 sono stata addetta alla presidenza del servizio assistenziale, nel ”47 socio fondatore della scuola di servizio sociale, che è stata un’idea che avevo mutuato da un convegno internazionale promosso dal Ministero dell’assistenza post-bellica, allora il ministro era Sereni, comunista, ma che era molto sensibile a queste cose. E’ stato organizzato un congresso, un convegno a Tremezzo sul Lago di Como, dove lì c’è stata una relazione molto dettagliata e ampia da parte della presidente del servizio sociale di Parigi, la quale aveva organizzato, anni addietro, una scuola di servizio sociale e aveva istituito nei vari dipartimenti di Parigi dei centri di assistenza sociale, dove operavano queste professioniste. Tornando dal convegno, ne parlai all’associazione dei laureati cattolici – che frequentavo anche se non ero laureata, ma mi avevano aggregato – e lì con la Pruner, la Videsott abbiamo fatto una certa opera di persuasione verso la Provincia perché ci aiutasse a promuovere una scuola di servizio sociale che nel ”47 è stata, poi, realizzata. La scuola è rimasta fino a tanto che lo Stato non ha istituito i corsi per assistenti sociali presso le università. Nel ”47 abbiamo iniziato l’attività della scuola di servizio sociale, che ha avuto un buon successo, specialmente i primi anni. I primi anni erano corsi di due anni, poi è diventato un corso di tre anni e lì, ovviamente, io avevo l’organizzazione dei tirocini. In quel modo abbiamo potuto, così, accostare queste professioniste alle realtà sociale della città e della provincia. Nel 1945 addetta alla presidenza del servizio assistenziale, nel ”47 socio fondatore della scuola di servizio sociale, nel ”48 segretario della Croce Rossa Italiana per la regione Trentino-Alto Adige, dal ”64 al ”79 assessore alle attività sociali e sanità del comune di Trento, attività svolta con particolare attenzione alla medicina preventiva, ai bambini della scuola elementare e agli anziani. Come assessore alle attività sociali, abbiamo raggiunto una decisione da parte del comune di stabilire un sussidio mensile a quelle famiglie o persone sole senza reddito e, soprattutto, senza possibilità di attingere alla pensione. E mi ricordo che avevamo stabilito, come comune di Trento – che poi faceva i relativi stanziamenti – di dare a queste persone sole una specie di pensione che era uguale a quella della pensione sociale, della previdenza sociale e mi ricordo che erano 12.000 Lire. In questo modo si evitava anche a queste persone di dover fare delle file estenuanti all’ECA per poter ottenere un sussidio che era, poi, di poche Lire e non serviva neanche ad arrivare alla fine del mese. In questa maniera abbiamo cercato di dare autonomia, almeno da questo punto di vista, a questi gruppi, a questi nuclei familiari che non avevano alcun reddito né possibilità di avere una pensione da parte della previdenza sociale. In questo periodo, abbiamo anche, come comune di Trento, come assessore al comune di Trento, creato il servizio sociale per il comune, distaccando delle assistenti sociali per ogni delegazione, la chiamavamo, adesso si chiama circoscrizione, con dei recapiti ben precisi, in modo che le persone che avevano bisogno di informazioni o di particolare assistenza sanitaria e sociale si rivolgevano a questi centri delle delegazioni, che erano sia in tutti i sobborghi del comune di Trento, sia nella stessa città di Trento. Poi nella… Abbiamo anche, nel ”78/”79 istituito un centro di medicina sociale, che era supportato dal neuropsichiatra infantile e da un pediatra e da uno psicologo. Questo centro di medicina sociale era, soprattutto, rivolto a quella fascia di minori che erano disturbati e che non erano accolti e aiutati nella scuola normale. L’insegnante tendeva sempre a isolare questi ragazzi annettendoli a delle classi speciali senza nessun aiuto da parte degli psicologi o di un servizio socio-sanitario che potesse aiutare la famiglia e gli insegnanti a recuperare il minore. Allora il centro di medicina sociale l’abbiamo istituito a Trento nel ”72 e abbiamo, poi, creato delle équipe di specialisti, più l’assistente sociale, in tutti comprensori. Questo centro si curava di questi ragazzi difficili o incompresi o particolarmente non aiutati a superare la situazione neuropsichiatrica di cui erano affetti. Questo è servito moltissimo per recuperare questi ragazzi lievemente disturbati a non doverli mettere nelle scuole speciali ma a inserirli nelle scuole normali. Poi nel ”74 ”79 è stato costituito il consorzio sanitario della Valle dell’Adige dove confluivano cento comuni della valle e di cui ero la presidente. Con questo sono stati completati i servizi sanitari in tutti i comprensori, con il pediatra, il neuropsichiatra infantile ed alcuni specialisti. In questo periodo, anche prima del ”74, avevamo attivato la poliambulanza scolastica, che c’era già ma era solo così, generica, mentre nella poliambulanza scolastica abbiamo istituito servizi specialistici in modo che i bambini, specialmente i primi anni, venivano visitati e fatta una cartella sanitaria per tutte le specialità, dall’ortopedia all’oculistica. Nella poliambulanza tutti passavano una visita generica in modo che, poi, venivano individuati e seguiti o inviati nei centri specialistici per il recupero o per la correzione di questi difetti che potevano avere. Come presidente del consorzio sanitario Valle dell’Adige, è stata un’esperienza molto, molto efficace perché si è stabilito in tutti i comprensori un consultorio familiare, un consultorio per la popolazione ma anche soprattutto per i ragazzi, per gli scolari in modo da controllare e prevenire eventuali difetti che potevano avere o incontrare nello sviluppo. In questo periodo, come Croce Rossa, avevamo istituito dei brevi corsi di assistenza, di pronto soccorso per i ragazzi delle elementari. Questi corsi venivano svolti dalle infermiere volontarie della Croce Rossa che andavano nelle scuole a svolgere questo tipo di attività. In questo periodo, poi, è stata curata la medicina preventiva con tutte quelle forme di prevenzione che erano possibili. Attraverso il consorzio antitubercolare, facevamo a tutti la prova della tubercolina, in questo modo era facile scoprire quei ragazzi che potevano avere in incubazione delle forme di tubercolosi, in modo da poter intervenire nella prevenzione. Poi, nel ”79, presidente del consorzio sanitario della Valle dell’Adige. Abbiamo istituto, com’era uscita la legge per i consultori, il primo consultorio familiare come comune, in via… Lì dove c’era il nido dell’OMNI che, con la nuova legge della soppressione dell’OMNI, questa attività passava di competenza ai comuni. Lì avevamo la sede del consultorio familiare, il primo consultorio istituito nella provincia di Trento, poi è stato seguito dai consultori familiari dell’UCIPEM e qui avevamo un’attività abbastanza forte nel cercare di informare con dei corsi particolari tenuti da psicologi e dalla Mosna… Cos’era?… Sessuologa, in modo da mettere al corrente di questa nuova istituzione e per preparare le future mamme o le mamme stesse ad affrontare certi problemi. Poi, nell”’89, sono stata incaricata come presidente dell’ITEA e lì come obiettivo che mi ero data era di trasformare l’alloggio da contenitore della persona all’abitazione, in modo che sia le nuove realizzazioni abitative sia quelle che si rifacevano, si rimettevano in uso, fossero alloggi, non delle scatole ma un’abitazione con annessi dei servizi che potessero rendere più confortevole l’abitazione. Un’altra cosa che ci siamo proposti, come presidente dell’ITEA, era quello di realizzare alloggi che fossero abitazioni e di evitare espropri, specialmente nelle vallate e, invece, utilizzare, ricostruendoli, i centri di antica origine, le vecchie abitazioni. In questo modo non si alterava l’habitat del paese o della frazione ma lo si rendeva più confortevole e, anzi, diventava un centro di animazione per il paese perché, venendo ricostruito il centro del paese, il paese tornava a vivere la sua vita di periferia. Nel”’89 sono stata nominata presidente del centro italiano femminile e qui abbiamo cercato di fare dell’educazione sanitaria, dell’educazione alimentare e abbiamo creato, anche per aiutare le famiglie, una scuola per baby-sitter, la prima scuola sorta nella provincia ed è stata riconosciuta e finanziata dalla Provincia. Queste persone, queste ragazze – in genere erano ragazze – che frequentavano la scuola avevano, poi, la possibilità di essere assunte presso gli asili nido come aiutanti qualificate. Poi abbiamo diffuso questo servizio anche presso le famiglie e questa è stata un’esperienza direi felice, perché poi si sono create le famose Tagesmutter, che ancora adesso esercitano la loro attività presso famiglie o presso centri. Nel ”97 ho lasciato il centro italiano femminile e quell’anno, o quello prima, avevamo stabilito di recuperare i due edifici di proprietà del centro italiano femminile: un edificio a Cei, sopra Aldeno e uno a Sella Valsugana. Allora erano edifici malmessi ed usufruiti durante l’estate da gruppi scout o sportivi, però erano carenti di tanti servizi e, poi, insomma… Degli alloggi che non erano adatti per il servizio che svolgevano. Allora abbiamo fatto un progetto di recuperare l’alloggio, la casa diciamo, di Cei e trasformarla in un centro di assistenza agli anziani in modo che potessero… Non so, per esempio, quegli anziani che venivano dimessi dall’ospedale e che non avevano assistenza a casa – come i traumatizzati – potevano essere alloggiati lì. Pertanto sono state realizzate delle camere con i servizi necessari per trenta/trentadue persone che avevano bisogno di assistenza. Nello stesso edificio abbiamo anche realizzato un piccolo locale di fisioterapia e, poi, un locale di attività fisica. Questo è stato realizzato sulla legge 64, mi pare ed è stato finanziato completamente dalla Provincia. La casa di Cei, che era anche questa messa male con servizi piuttosto carenti, mancanza di acqua come può essere una casa abbandonata da anni, avevamo deciso di farne un centro per i giovani, in modo da offrire a queste associazioni giovanili, come gli oratori e gli scout, la possibilità di alloggiare, di fermarsi a fare dei corsi oppure in estate per un soggiorno estivo. Questa è stata realizzata sulla legge 74 o 79 sempre della Provincia e con il contributo della Provincia. Sono due case molto confortevoli, adeguatamente attrezzate e strutturate con molta attenzione, in modo che rispondano alle necessità degli utenti, sia anziani che giovani. Per i giovani avevamo… Nella casa è stata creata una sala dove si tenevano conferenze o brevi corsi di aggiornamento, sempre per la categoria giovani. Queste due case sono state realizzate e sono tuttora in funzione. Con un risultato soddisfacente, perché la casa di Cei era stata acquistata dal CIVD di Trento nel 1955 ed era usufruita, specialmente nel periodo estivo, come soggiorno per gli handicappati e questa era stata la signorina Denicolò, che allora era assessore al comune di Trento, a realizzare l’acquisto e a usufruire, poi, queste case in particolare per gli handicappati. Poi, durante la guerra, dal ”45… Durante la guerra abbiamo avuto molto impegno nell’assistenza a… Nel ”43, come Croce Rossa, abbiamo organizzato un servizio di assistenza e aiuto agli internati di Germania inviando, oltre alla corrispondenza che ci recapitavano i familiari, gli aiuti, che poi arrivavano decimati agli interessati ma qualcosa è arrivato anche ad Auschwitz e Mauthausen. Quando nel ”45, con la fine della guerra, i rimpatriati, questi internati rientravano, abbiamo organizzato dei punti di assistenza a Salorno e Trento. Arrivavano coi camion e noi davamo a loro un po’ di ristoro e, poi, proseguivano per le loro destinazioni. Questa assistenza è stata fatta, oltre che personalmente, anche da parte delle infermiere volontarie della Croce Rossa. Qui abbiamo avuto molto da fare e, soprattutto, ci siamo occupate come Croce Rossa dell’assistenza ai rimpatriati malati di tbc che erano su al sanatorio di Mesiano, sia per assisterli che per cercare di metterli in comunicazione con le loro famiglie. Poi, nel ”47, abbiamo svolto una particolare assistenza ai profughi giuliani, Venezia Giulia e Dalmazia. Il Ministero ci aveva dato l’ordine di istituire un campo profughi e noi, a questo ordine, abbiamo chiesto al prefetto di allora se poteva invitare tutti i sindaci della provincia a mettere a disposizione degli alloggi, assumendosi il costo dell’affitto. E’ stato fatto, questo, con una risposta molto favorevole. difatti questi profughi arrivavano, venivano sistemati per un giorno o due come alloggio alle scuole Crispi e come pasti alla cucina popolare in piazza Garzetti, dove venivano a consumare i pasti, eccetera. Poi venivano, a seconda dell’alloggio e del nucleo familiare… Li destinavamo in questi vari paesi dove c’erano alloggi adatti per il loro nucleo familiare. Il gruppo di profughi giuliani che veniva da Pola erano quasi tutti operai della manifattura tabacchi. Questi li avevamo alloggiati alle ex caserme Follone di Rovereto in quanto sono stati, poi, assorbiti dalla manifattura tabacchi di Rovereto. In questa maniera abbiamo evitato i campi che erano veramente un abbrutimento, oltre che una rottura del nucleo familiare. Man mano, poi, questi profughi o emigravano o andavano in altre province dove avevano trovato un lavoro o dove avevano dei parenti a cui appoggiarsi. Appena dopo la guerra, ci siamo preoccupati della distribuzione di medicinali, che avevamo ottenuto sia dagli americani che comandavano, diciamo, la provincia di Trento sia dalla Croce Rossa svizzera che ci aveva fornito di parecchi medicinali, specialmente ricostituenti, medicinali specifici per una popolazione che usciva da una guerra stremata anche di forze. Qui abbiamo avuto anche l’aiuto di una certa fornitura di medicinali da parte della dottoressa Livia Battisti che faceva parte di un’associazione, la CIAS, svizzera dove lei era stata durante la guerra e che inviava medicinali, anche quelli di una certa importanza. Questa distribuzione era completamente gratuita e veniva messa a disposizione dei medici condotti, che somministravano alle persone che ne avevano bisogno e che non avevano la possibilità di acquistare questi prodotti. Dal ”49 fino al ”71 abbiamo, come Croce Rossa, istituito un ambulatorio odontoiatrico gratuito per i bisognosi non assistiti da altri enti e l’ambulatorio per la vaccinazione antipolio a Trento e provincia. Nel 1950, appena dopo la guerra, è stato acquisito, da parte della Croce Rossa, un edificio a Levico che è stato un po’ strutturato e ristrutturato per ospitare i minori rimasti orfani di guerra o che erano vittime civili. Questa struttura ha cominciato il 15 agosto del 1950 e si è chiusa nel 1987, ospitando questi minori in forma permanente e provenienti dalle due province di Trento e Bolzano. Avevamo anche un gruppo di bambini tedeschi che ci inviava la Provincia di Bolzano, erano quasi tutti bambini bisognosi di assistenza e di cure e anche di cure fisiche, oltre che di un’assistenza psicologica. In questo periodo siamo state aiutate, sempre come Croce Rossa, dal capitano Kracov, che era il capo dei servizi sanitari e sociali della provincia di Trento, che ha aiutato molto per realizzare quest’opera e che da dove c’era la sua città, ci aveva fatto inviare un ambulatorio bellissimo, attrezzatissimo da mettere in questo istituto permanente di Levico. Questo istituto ospitava in un primo tempo quindici ospiti e poi ha subìto degli ampliamenti e delle sistemazioni e ne poteva ospitare centocinquanta. I bambini erano organizzati in gruppi di dieci/dodici e frequentavano la scuola interna all’istituto, che in un primo tempo era stata privata, perché istituita dalla Croce Rossa, in quanto la scuola pubblica, elementare in particolare, di Levico non aveva la possibilità di ospitare tutti questi bambini che dovevano frequentare le scuole elementari. Allora, in un’opera di ristrutturazione di questa casa si sono create delle aule con palestra e vari servizi per creare la scuola pubblica, in modo da poter ospitare anche bambini della zona o del paese che non potevano trovare posto nella scuola elementare del comune oppure erano più vicini al nostro istituto che al centro della scuola elementare. Lì abbiamo avuto la scuola pubblica con insegnanti dati dal provveditorato, dallo Stato e in questo modo si è potuta realizzare una certa socialità anche coi bambini del paese, non dell’istituto. Si sono formati, così, dei gruppi di giochi, di lavoro, si sono formati anche gruppi di bambini che suonavano la chitarra o il flauto. Successivamente, come Croce Rossa, siamo intervenuti nel ”51 nell’alluvione del Polesine, mandando medicinali, materiali di soccorso e l’assistenza era effettuata dalle nostre infermiere volontarie. Nel ”53 abbiamo mandato anche aiuti agli alluvionati dei Paesi Bassi e aiuti e soccorsi agli alluvionati del salernitano nel ”54. Nel ”56 un’assistenza particolare ai profughi, ai rifugiati dell’Ungheria che avevano chiesto ospitalità a Trento. Sono stati ospitati nell’edificio scolastico, trasformato e adeguato, a Locca di Val di Ledro. Poi, con l’alluvione del ”68, è stato distrutto un villaggio, una frazione di Valfloriana, Piazzo mi pare si chiamasse…
Intervistatore. Nel ”66.
A. Sì… Piazzo di Valfloriana è stata distrutta. Qui abbiamo potuto avere un aiuto sostanziale da parte della Croce Rossa svizzera, da parte della Provincia per costruire un villaggio che desse ospitalità a queste famiglie che erano state disastrate. Infatti la Provincia ha acquisito dal comune di Valfloriana una zona molto bella e lì si è fatta… La Provincia ha preparato un progetto per una trentina di alloggi che erano tutti alloggi indipendenti, non come condominio: ognuno aveva la sua casa, la sua scala e la sua porta. Questo è stato realizzato col contributo della Provincia, della Croce Rossa italiana, della Croce Rossa svizzera, che ha dato duecento milioni, dal comune di Valfloriana, che ha dato parte dei terreni e dalla Provincia di Aosta, che ha mandato un contributo abbastanza sostanziale. E’ stato realizzato questo villaggio italo-svizzero con tutti questi alloggi che sono stati dati alle famiglie disastrate che erano rimaste senza alloggio. Attualmente questi alloggi sono diventati di proprietà di queste famiglie, recentemente. Adesso questo villaggio è autonomo, funziona con i propri mezzi; il comune è interessato per i servizi fondamentali. Nel frattempo, abbiamo inviato attrezzature, medicinali e altro materiale sanitario e di soccorso in Libano, dove sono andate anche quattro delle nostre infermiere volontarie. Nell”’85 è stata fatta un’operazione di soccorso a Stava, ai sinistrati di Stava e qui è stata fatta veramente un’azione molto lunga, oltre che di assistenza materiale, anche di assistenza sociale. Quando sono entrata in Croce Rossa, avevamo il servizio trasporto infermi fermo, perché avevamo un’ambulanza che aveva bisogno di un treno di gomme nuove e la Croce Rossa non aveva i soldi per acquistarlo. Poi sono arrivati gli americani, i quali hanno portato un’ambulanza loro con delle soldatesse infermiere che guidavano e che hanno iniziato il servizio trasporto infermi con macchine loro. Poi, pian piano, la Provincia… La Regione, prima, ci ha dato dei contributi e abbiamo potuto realizzare un servizio molto efficiente dislocato in tutti i comprensori: dove c’era un ospedale, lì c’erano, di solito, due/tre ambulanze a seconda dell’importanza dell’ospedale. Questo servizio è stato organizzato anche con una rete di radiotelefono, in modo che le ambulanze potevano comunicare con l’ospedale per eventuali interventi quando veniva portato il malato. A un certo momento la Provincia ha deciso di assumere in proprio questo servizio trasporto infermi e ha fatto una legge che ci ha requisito tutte le ambulanze – erano cinquanta – e anche il personale addetto che, per la verità, non era molto, ma che era coadiuvato efficacemente dai volontari del soccorso. Il servizio è stato assunto dai vari ospedali, sempre a spese della Provincia e subito è stato efficiente, intanto perché è stato completato con attrezzature moderne e, poi, con questo servizio di radiotelefono che era in comunicazione col mezzo e con l’ospedale o col medico del pronto soccorso era diventato un servizio efficiente e che poteva dare dei risultati positivi. Questo servizio c’è costato parecchio, in quanto avevamo del personale fisso però non potevamo assumere nuovo personale, perché questo era l’ordine dalla sede centrale della Croce Rossa. Potevamo assumere personale da impiegare nelle ambulanze solo per tre mesi in un anno. Sotto questo profilo, quindi, eravamo molto carenti e il passaggio alla Provincia, ovviamente, è stata una cosa molto positiva, perché hanno potuto attrezzare queste macchine col personale necessario e con le più sofisiticate attrezzature. Però il gruppo volontari si è dotato di altre due o tre ambulanze per servizi integrativi, per esempio per i viaggi fuori provincia, per i trasferimenti all’estero, servizi che svolge tuttora. Poi i volontari si erano organizzati anche per il servizio di pronto soccorso per le gare sportive, sui campi da sci e nelle località lacustri, come Caldonazzo e Riva del Garda. A Riva è stato combinato, diciamo, un aiuto coi sommozzatori perché quelli erano abilitati e capaci di intervenire in caso di bisogno. Nel frattempo, io ero impegnata anche sul piano politico perché facevo parte del comitato provinciale del partito e avevo avuto sempre molti rapporti e contatti, appena dopo la guerra, con il senatore Benedetti e l’onorevole Helfer che costituivano un po’ il nucleo, il germe del partito e da lì ho sempre seguito il partito che, poi, quando è stata nominata la Conci, avevamo avuto molti rapporti e molte informazioni e guida da parte della Conci, che incontravo facilmente in quanto lei, tornando da Roma il sabato o la domenica, di solito veniva fino al lunedì, veniva col treno che arrivava alle sette e mezza/sette e un quarto da Roma e, abitando in Santa Trinità, veniva a piedi in Santa Trinità e passava sempre dal Duomo. A quell’ora io ero lì alla messa, poi uscivamo insieme e praticamente mi dava tante indicazioni e così ho sempre fatto parte del comitato femminile del partito e ho partecipato alle varie campagne elettorali, alle varie iniziative che l’allora comitato femminile si proponeva. Soprattutto facevamo queste riunioni nei paesi, molto frequentate, dove si faceva proprio dell’educazione politica perché le donne non avevano mai avuto il voto. Nel ”46 è stato concesso e dovevamo andare nei paesi a spiegare questa novità ed è stato un lavoro che abbiamo svolto con molta efficacia. Io sono stata facilitata in questo perché, essendo membro dell’Azione Cattolica, noi ogni domenica andavamo nei vari paesi per riunioni di Azione Cattolica, delle donne e lì si spiegava anche la politica, perché era una novità assoluta, per far capire anche che valore, che significato aveva il voto. Esprimere un voto significava assumersi una responsabilità, in base a un determinato programma. Queste visite ai paesi come Azione Cattolica sono iniziate nel ”40, quando sono stata comandata all’ONAIR. Ho sempre partecipato come membro dell’Azione Cattolica e dopo come movimento femminile, per le attività che il movimento femminile, soprattutto di informazione politica, svolgeva a livello provinciale, nel limite delle nostre possibilità. Essendo, poi, stata coinvolta come assessore del comune, avevo parecchie cognizioni di ordine pratico che erano molto utili a informare queste donne che entravano digiune completamente nell’ambito della vita sociale e politica. Durante la mia attività di assessore al comune di Trento – che sono stata per quindici anni, tre legislature – assessore all’igiene e alla sanità e poi avevo anche l’edilizia, ché allora avevamo le case del comune. Avevo molti contatti con la gente, che ricevevo senza bisogno di prenotazioni e che cercavo di seguire con molta partecipazione. Difatti devo dire che è stata per me un’esperienza di vita notevolissima, che mi ha dato la possibilità di entrare nelle fasce dei bisogni con molta consapevolezza, di orientare anche la mia attività e le scelte programmatiche in questo campo sociale e assistenziale in un modo corrispondente ai bisogni della gente, che sentivo molto vicino. Partecipavo molto agli incontri nei sobborghi o nelle varie zone del Trentino per illustrare un po’ le nostre finalità, le finalità politiche nel campo sociale e assistenziale della Democrazia Cristiana. Una cosa che non ho fatto sono state le vacanze, quelle non le ho mai avute in calendario, perché quando si vivono certi problemi non si può andare in vacanza. Ho avuto anche l’incarico di partecipare al consiglio di amministrazione della casa di riposo di Levico per dieci anni e anche questa è stata un’esperienza molto positiva, in quanto la casa è stata completamente ristrutturata, sempre coi fondi della Provincia e ampliata. Oggi è una delle case di riposo più belle. Sono stata per dieci anni in questo consiglio e recentemente, nel dicembre del 2004… Il comune di Levico ha una banda di antica data e questa banda ha un consiglio, un comitato che celebrava, mi pare, il cinquantesimo e, nell’occasione, hanno istituito delle note di merito. Pur essendo via da parecchio, nel dicembre del 2004 mi hanno conferito questa nota di merito, che mi ha fatto tanto piacere. Dalla Croce Rossa mi hanno conferito, dopo due anni che ero via, la medaglia d’oro di riconoscimento per l’attività che avevo svolto in Croce Rossa. Eccola. La nota di merito mi ha molto meravigliato ma…
Intervistatrice. Varrebbe la pena riprenderla [la nota di merito] perché dentro in quel pezzo… Soprattutto dove dice “servizio agli altri…”. Questo pezzo qua si potrebbe tirar fuori anche per il convegno, perché c’è dentro tutto, abbastanza in sintesi.
A. E’ lunga la storia! Tanti anni…
Intervistatrice. Però, siamo arrivati al dunque. Sono anni carichi di fatti e di opere. Non sono anni vuoti, voglio dire. Hai qualcosa ancora da aggiungere?
A. Venendo via dalle istituzioni, ho curato certi settori come quello degli ammalati, delle persone anziane ammalate e i ragazzi che uscivano dalla colonia permanente li appoggiavamo per le scuole, perché rimanevano fino alla quinta classe elementare, poi alle scuole medie venivano, in parte, alle Artigianelli, a Sant’Ilario, ad Arco, in scuole professionali. E così li seguivo, specialmente quelli che non avevano la famiglia. Di questi alcuni sono stati sempre molto vicini. Uno di questi è stato adottato – era un figlio illegittimo – dalla famiglia Moratti di Milano ed è diventato membro della famiglia, per cui una situazione di totale tranquillità ed è stato anche accolto dai membri della famiglia, perché i Moratti avevano cinque figli e la signora, prima di chiedere l’adozione di questo bambino che lei aveva conosciuto durante un suo soggiorno a Levico, veniva a visitare questo istituto… Questo bambino, che aveva quattro anni, non aveva i genitori: la mamma era in ospedale psichiatrico, il padre non si sapeva chi fosse… A vedere questa signora che si intratteneva coi bambini… Non so, si è aggrappato alla sua borsa e, ogni giorno che veniva su – quasi tutti i giorni – a salutare i bambini, si preparava lì alle quattro e mezza quando arrivano… La sua angoscia era che gli altri, qualche mamma c’era e anche qualche papà, ma lui non aveva nessuno ed era veramente angosciato da questo. Allora la signora se l’è preso a cuore e un giorno questo ragazzo le dice: “senti, posso chiamarti mamma?” e lei: “no, io non sono la tua mamma. Sai cosa facciamo? Adesso andiamo a fare una passeggiata nel parco sotto l’istituto – il parco delle terme – e tu vai sulla strada a sinistra, io sul sentiero di destra e il primo che trova un fungo chiama: se sono io, chiamo “Natalino ho trovato…”, se sei tu, chiami “mamma, ho trovato una cosa”. Quello non aveva ancora fatto un passo che ha raccolto una ciorciola e ha gridato: “mamma, ho trovato…” e le ha presentato ‘sta ciorciola. Da allora, l’ha sempre chiamata “mamma”. Poi ha ottenuto da Bolzano…
Intervistatrice. Quanti anni aveva?
A. Quando è avvenuto questo episodio, era in seconda o terza classe elementare. Allora abbiamo chiesto – perché era la Provincia di Bolzano – e aveva… La mamma non siamo… Eravamo riusciti a sapere che fine avesse fatto, abbiamo cercato tanto, anche la Provincia, perché non ci diceva dov’era questa mamma, in quanto questo bambino aveva il nonno e uno zio a Bolzano, che avevano un negozio di frutta e verdura. Sono andata per vedere di soddisfare questo bambino, che avesse un parente o qualcuno che lo potesse visitare e il nonno ha detto: “io non ho nipoti” e lo zio: “mia sorella è al manicomio e io nipoti non ne ho”. E mi hanno liquidato dicendo: “non venga a fare certe richieste”. Allora mi sono rivolta all’ospedale psichiatrico di Pergine e la suora ha detto: “guardi, c’è qui la mamma di questo bambino, però ha una forma talmente grave che non le si può dire che ha un bambino perché diventa furiosa”. Allora dico: “me la faccia almeno vedere” e infatti era in una stanza con un tavolo in mezzo e lei era lì con la testa appoggiata che dormiva. Sa, li imbottivano di psicofarmaci, specialmente quelli che andavano in escandescenza. Allora dico all’assistente: “veda se può trovare una giornata o un periodo che è un po’ calma e la porta a Levico, che almeno gli facciamo vedere al bambino la mamma” ché lui desiderava tantissimo questa mamma che non… Tanto che io, quando andavo in giro, gli spedivo sempre una cartolina e mettevo il mio nome, perché diceva: “però io non ricevo mai neanche una cartolina…” e allora io gli spedivo le cartoline. Oppure gli portavo, specialmente quando non andava ancora a scuola, cartoline mie usate e gliele davo, così aveva l’impressione di ricevere anche lui cartoline da qualcuno. Allora la Provincia di Bolzano ha concesso che questa signora si prendesse il bambino e lei disse: “ho fatto un consiglio di famiglia e sono tutti d’accordo di prenderlo”. Aveva fatto la quinta elementare e dico: “adesso questo bambino ha fatto la quinta ma dovrà fare le medie, una scuola professionale” lui voleva fare l’elettricista. E lei: “no, farà la scuola. Lo manderei in collegio in Svizzera dove ho i miei ragazzi ma non mi fido, perché ho paura che si trovi a disagio. Coi fratelli… Sono alle scuole superiori e hanno certi agi… Che lui si senta un po’ discriminato. Cerchi Lei un…” e io ho cercato gli Artigianelli, che sono qui vicino, così impara un’arte e farà il falegname invece dell’elettricista. Allora, dico: “Signora, guardi, avrei trovato un posto agli Artigianelli” e lei: “no, ci vuole un collegio con una scuola vera, non andare a imparare a fare il falegname, tra l’altro lui vuol fare l’elettricista”. Allora a Brescia dai salesiani ho trovato… Faceva le scuole professionali. Questa signora, quando ha avuto l’assenso dalla Provincia di Bolzano che le affidava il bambino – perché le hanno dato l’affidamento per prima cosa, non l’adozione – e dice: “bisogna che a Natale te lo porti a casa a Milano a vedere in che ambiente va” e allora dico: “va bene, noi prepariamo questo bambino” coi pantaloni blu di orbace, mi ricordo sempre e la giacchettina della prima comunione. Era l’antivigilia di quando cominciavano le vacanze. Arriva e dice: “guardi, lo mando a prendere il giorno tale” ed era l’antivigilia di Natale, “va bene” dico. Arriva una Jaguar lunga da qui a lì con l’autista in divisa che dice: “vengo a prendere il Natalino”. E gli abbiamo dato la sua valigetta con dentro la biancheria ed è partito in Jaguar. E’ stata la prima uscita dall’istituto dove era entrato che aveva due anni e mezzo. C’era il Moratti, il papà, che era presidente dell’Inter e aveva creato la squadra famosa dell’Inter, che mandava all’istituto i palloni, perché loro i palloni li usano una volta e poi, non so… Ci ha mandato i palloni e le magliette dell’Inter in modo tale che avevamo la squadra dell’Inter che giocava con una squadra del paese. Sa, loro si sentivano altro che campioni! Insomma, questo bambino arriva a Milano e, come arriva a Milano – me l’ha raccontato dopo – c’era già il sarto con un vestito pronto e gli ha messo su questo bel vestito con la camicia di seta. E, poi, c’era il pranzo di Natale, perché loro fanno sempre il pranzo alla sera… La cena. E dico: “ma cosa fa con questo bambino? Lo prenda dopo Natale, almeno in queste circostanze…” e lei: “oh, no, viene anche lui. Lui mi segue anche se ho tanta gente…” C’era Pella, allora, che partecipava a questa cena, diversi ministri… Ad ogni modo questo bambino va. Dopo io ho telefonato: “come va con Natalino, signora Erminia?” e lei: “benissimo!” e io: “ma come ha fatto al pranzo, che non è mai stato con cinque bicchieri davanti e posate?”, “bravissimo! Io gli ho detto: tu ti siedi vicino a me e fai tutto quello che faccio io”. A un certo momento lei ha messo i gomiti sul tavolo, aveva di fronte i suoi ragazzi, Massimo e Gian Marco – Massimo è quello dell’Inter – che si sono messi a ridere e lei: “ma cosa avete da ridere?” e loro: “guarda che il Natalino ha messo anche lui i gomiti sul tavolo!”. Doveva fare quello che faceva lei. Ha detto che si è comportato benissimo, compreso questo! E dopo l’hanno preso per le vacanze estive e l’hanno portato a fare un giro, un viaggio con lo yacht. Quando è tornato mi ha detto: “sai, sono stato in barca anche a dormire!”, avevano fatto il giro del Mediterraneo, sono stati in Grecia… Non so per quanti giorni. Allora l’abbiamo messo in questo collegio dei Salesiani a Brescia, il sabato mattina arrivava la Jaguar a prelevarlo e lo riportava la domenica sera. Però lui era affezionatissimo a questa mamma e la signora Erminia diceva: “ma non può fare il falegname o l’elettricista: deve studiare e andare all’università” e io: “ma non è una cima” e lei: “all’università vanno tutti e va anche lui. Vedo anche i miei figli, che non sono cime, eppure vanno all’università e se la cavano bene”. Allora, finite le scuole medie, quando doveva fare le superiori, le dico: “adesso bisogna che prendiamo una scuola professionale”, “ah, no no: lo porto a Milano”, l’ha preso e l’ha portato a Milano. Faceva venire dei professori a fargli delle lezioni e poi si è inserito… Loro hanno una grande raffineria in Sardegna, la più grande d’Europa, che fornisce benzina a mezza Europa e l’hanno inserito… Dice: “intanto vai con i miei figli”, c’era ancora il papà, che l’ha portato in raffineria e gli ha dato dei compiti: quando arrivava il petrolio dai paesi arabi, loro avevano una specie di oleodotto e lo scaricavano nei loro depositi prima di essere raffinato. La Guardia di Finanza aveva un ufficio lì in raffineria, perché dovevano controllare tutto. E lui era con questi della Guardia di Finanza al controllo del petrolio. Poi è stato inserito con altri compiti, sempre nella società.
Intervistatrice. L’articolo su “Oggi”… Se ce lo racconti per riprenderlo.
A. Ha pubblicato questa fotografia di tutta la famiglia: tre donne e due ragazzi, compreso il Natalino, intitolato “come Natalino divenne mio figlio”. Un articolo commovente, perché poi io mi sentivo… Adesso la data… So che ho tenuto il giornale per parecchio e forse ce l’ho ancora da qualche parte. La signora veniva sempre a Levico a fare le cure e passava a trovarmi. Sono andata io, una volta, a casa sua in via Servelloni, in centro a Milano, all’incrocio con Corso Venezia, proprio vicino al centro. Era un appartamento di settecento metri quadri, un salone con… Perché lei aveva la mania di andare a tutte le mostre dei pittori giovani e comprava sempre quadri e quando il Gian Marco si è interessato di Muccioli, della casa di Muccioli e ci ha messo un mucchio di soldi. Anche adesso, tutti i venerdì sera parte col suo aereo e va a San Patrignano, lui e la famiglia perché Gian Marco è il marito della Letizia.
Intervistatrice. Letizia Moratti, il sindaco di Milano.
A. Del ministro.
Intervistatrice. E’ stata ministro all’istruzione.
A. E vanno sempre a San Patrignano, tutti i fine-settimana. Anche la signora, la mamma, andava anche lei. E hanno inventato tante attività per questi ragazzi, ne hanno 2.000, è un villaggio… Io non sono mai stata a vederlo San Patrignano ma era… Avevano, fra le altre cose, l’allevamento di cavalli da corsa, poi hanno inventato una pellicceria e dicevo: “ma Signora, queste pellicce chi è che le compra?” e lei: “facciamo un’esposizione a Milano sull’angolo…” non so se è pratica della piazza del Duomo: sulla Galleria meridionale, che poi sbocca in Corso… che corso è quello lì? Beh, è proprio in centro, in piazza Duomo, dopo Galtrucco. E hanno fatto l’esposizione di queste pellicce, per venderle e dico: “le ha vendute queste pellicce?” e lei: “due”, “ah, sì? Però!” dico io e lei: “le ho comprate io per dare soddisfazione a questi ragazzi”. E dopo avevano tutte le attività agricole, hanno tantissime attività, tra le altre cose fanno tutto loro, il pane, la pasta… E portano questi alimenti qui a Pergine, a Susà, dove c’è quella casa per questi ragazzi, una succursale… E qui vengono quelli… Imparano a fare il meccanico… Adesso avevano da fare dei telai delle biciclette, insomma si guadagnano qualche cosa. Però mi dicevano lì in paese e anche a Pergine che non danno alcun fastidio, che sono ben voluti.
Intervistatrice. Sono a San Vito.
A. Sì, a San Vito.